La vera Tel Aviv

“C’era lo spudorato degrado degli edifici, addolcito dal vivido fucsia delle buganville che coprivano ruggine e crepe, affermando l’importanza della bellezza fortuita rispetto alla necessità di salvare le apparenze. C’era il modo in cui la città sembrava rifiutare qualsiasi limitazione; c’erano le sacche di surreale in cui ci si imbatteva ovunque, continuamente, all’improvviso, pronte a esplodere e a far saltare in aria la ragionevolezza come una valigia abbandonata all’aeroporto Ben Gurion.” Raramente ho letto così vivide descrizioni di Tel Aviv da parte di scrittori “stranieri”, questa è appunto estrapolata dal libro Forest Dark di Nicole Krauss (Guanda, 2017). Un romanzo che oltre la pura narrazione raccoglie molte altre notevoli riflessioni su Israele e sull’ebraismo, un percorso intimo e formativo che attraversa proprio una “selva oscura” dantesca popolata da personaggi allucinatori e kafkiani. La Tel Aviv di Krauss è così lontana dall’immagine pre-confenzionata della città che viene spesso offerta al turista: la città del divertimento con i suoi grattacieli avveniristici e le spiagge assolate, simbolo della Start-up Nation. Dimenticando invece i “tozzi condomini di cemento” bauhaus o brutalisti ricoperti di vegetazione, o l’aspetto trascurato delle sue botteghe e vie centrali che l’avvicinano a molte altre città del Mediterraneo e del Medio Oriente, e che la rendono, a mio parere, una città molto più affascinante. Una città nata sostanzialmente da poco in mezzo al deserto, la quale sembra invece contenere nei suoi limiti territoriali millenni di storia ebraica attraverso tutte le sue peregrinazioni e contatti nel mondo.

Francesco Moises Bassano

(3 luglio 2020)