La Libia ebraica
tra storia e memoria

“La storia è una cosa, la memoria è un’altra”, ammonisce Jacques Roumani nella sua introduzione a Libia ebraica, un volume edito da Salomone Belforte & C. in questi giorni in libreria. Una raccolta di saggi da lui curata insieme alla moglie Judith e a David Meghnagi e che non ha potuto vedere stampata nemmeno nell’edizione americana pubblicata pochi mesi dopo la sua scomparsa. Quella che viene presentata nell’edizione italiana è qualcosa di più di una traduzione perché ospita il saggio di Liliana Picciotto sulle deportazioni degli ebrei mediterranei che non era presente nell’edizione americana; lo stesso saggio di David Meghagi, che chiude il volume e sul quale ritorneremo, è stato ampiamente rielaborato.
In realtà tutto il volume è giocato sullo sviluppo parallelo dei due registri, quello della ricerca e quello della memoria, che restano separati fin quasi alla fine quando, come vedremo, si incontrano e si ricompongono. La storia è ben presente e non solo nella prima parte del volume, intitolata appunto “Storia”, che con i saggi di Shimon Applebaum e di Maurice M. Roumani ci porta dal periodo della dominazione romana a quello ottomano, ma anche in altre parti, con i due saggi di Harvey E Goldberg dedicati al passaggio dal periodo ottomano a quello caratterizzato dalla colonizzazione italiana e alla vicenda post coloniale segnata dal pogrom del 1945, una vicenda traumatica che ritroviamo in tutto il volume.
Ma è dai saggi imperniati sulla memoria di chi ha vissuto nella Libia che ha visto, fino alla drammatica svolta del 1967, una presenza ebraica viva e profondamente radicata, che si comprende quanto sia vera l’affermazione che, altrimenti, potrebbe apparire solo un espediente editoriale, che questo è un libro destinato sia agli specialisti sia a un pubblico più vasto che specialista non è. Leggendo le pagine dedicate a questi aspetti della memoria è necessario trattenersi per non rischiare di cadere in un eccesso di enfasi retorica dicendo che da alcune pagine si sentono quasi sprigionarsi gli odori, i sapori, i suoni di quella vita quotidiana rievocata come aspetto fondamentale della propria esistenza ma senza alcun compiacimento nostalgico: troppo sconvolgente è stata, per chi l’ha vissuta, l’esperienza dei pogrom del 1945, del 1948 e del 1967 perché, accanto alla memoria, sia rimasto un residuo di rimpianto o il desiderio di un ritorno non solo impossibile ma nemmeno auspicato. Questa memoria attraversa tutta la seconda parte del volume, in particolare negli scritti di Hamos Guetta e di Jack Arbib, ma la si ritrova anche, pienamente, nelle ultime tre parti, che hanno i titoli fortemente evocativi di “Donne”, “Voci”, “Sofferenze”.
Che quella dedicata alle donne sia una delle parti più significative del volume lo si intuisce facilmente: proprio in una società maschilista quale era quella degli ebrei libici, per non parlare dell’intero contesto libico, il ruolo della donna nella vita quotidiana acquistava un peso centrale, ricostruito in due scritti, rispettivamente di Rachel Simon per quanto riguarda il periodo a cavallo tra XIX e XX secolo e di Gheula Canarutto Nemmi e Judith Roumani per il periodo più recente, fino all’approdo alle due destinazioni principali per gli ebrei libici, l’Italia e Israele.
Si giunge così all’ultimo saggio del volume, quello di David Meghnagi, dove, come abbiamo anticipato, memoria e storia si incontrano e si ricompongono. Meghnagi ha vissuto attraverso il racconto dei parenti, da bambino assai precoce come lui stesso ricorda, il trauma del pogrom del 1945, il più feroce, caratterizzato da episodi così atroci da non poter nemmeno essere ricordati nei loro particolari; e nello stesso modo ricorda quello del 1948, che nasce come reazione alla nascita dello Stato d’Israele ma dove già si manifesta, diversamente da quanto era accaduto tre anni prima, la capacità di autodifesa della comunità ebraica. Infine ha vissuto personalmente nel 1967, in occasione della guerra dei Sei giorni, l’ultimo episodio, la cacciata degli ultimi ebrei rimasti in Libia dopo che la maggior parte aveva scelto di vivere in Israele, affrontando le durissime condizioni di vita dei primi anni dello Stato ebraico.
La memoria di tutti questi momenti è in Meghnagi vivissima; ma è accompagnata al tempo stesso da una consapevolezza storica che permette quella ricomposizione a cui abbiamo fatto cenno prima.
Questo riferimento al saggio finale di Meghnagi non sarebbe completo se non si ricordasse quello che egli scrive a proposito del multilinguismo che caratterizzava la comunità ebraica di Libia e che consentiva gli scambi, anche i più conflittuali, con le altre comunità, in particolare con quella araba, presenti nello stesso territorio. Se in Meghnagi questo aspetto acquista un particolare valore, esso è tuttavia presente in tutto il volume, nei saggi più diversi, ed è forse il collante più vivo dell’intera opera.

Valentino Baldacci

(9 luglio 2020)