La medaglia più preziosa
Una tra le più importanti lezioni che mi ha impartito mio padre, e che mi è rimasta molto impressa, è stata quella di considerare lo sport non solo un terreno atto a misurare e ammirare il talento e i successi degli atleti, ma anche e soprattutto un mondo di valori, nel quale i campioni devono essere tali non solo sulle piste e i campi da gioco, ma anche nella vita. Ai primissimi posti, nella classifica dei suoi miti (che è anche la mia) figurano due personaggi che hanno dimostrato di essere davvero dei grandi uomini non solo nello sport, e trovo singolare (segno del suo spiccato “intuitus personae”) che la grande ammirazione per loro nutrita da mio padre si sia maturata quando ancora le loro non comuni doti umane non erano pienamente conosciute: Gino Bartali e Pietro Mennea. Dell’eroismo di Bartali – che, durante la guerra, mettendo a grave rischio la sua stessa vita, salvò da morte certa molte decine di ebrei -, infatti, si è avuta notizia solo in tempi recenti (dopo la morte sua e di mio padre), in quanto, tra gli straordinari meriti del campione, c’è stato anche quello della innata modestia, che sempre lo portò a evitare onori e pubblicità (simile, in ciò, a un altro immenso, Giorgio Perlasca).
Quanto a Mennea, se ne sono stati conosciuti l’impegno civile e la grande umanità, solo in questi giorni abbiamo avuto modo di apprendere di un’altra importante medaglia da aggiungere alla sua prestigiosa collezione. Una medaglia di un metallo molto più prezioso dell’oro, rappresentata da un toccante libro postumo (appena pubblicato dall’Editore Colonnese, con una Nota introduttiva della moglie del velocista, Manuela Olivieri Mennea [che spiega le ragioni della ritardata pubblicazione del volume], una Prefazione dello stesso autore, un’altra Prefazione di Jacques Rogge e una Introduzione di Ferdinando Imposimato) in cui “la freccia di Barletta” racconta la terribile esperienza della strage di Monaco 1972, di cui, in quanto membro della nazionale italiana di atletica, fu testimone diretto. Dalle pagine del volume (che sarà presentato domani presso il Museo Arheologico Nazionale di Napoli, e col quale Mennea rivela anche delle insospettate doti di scrittore) traspare tutto il raccapriccio, lo sgomento, l’incredulità del giovane atleta, che, partito per la città bavarese pieno di entusiasmo, con l’unico obiettivo di onorare i colori della sua bandiera, le note del suo inno nazionale, ma prima di tutto, i millenari valori di lealtà, fraternità e solidarietà alla base degli ideali olimpici, si trovò improvvisamente al cospetto del più brutale, abominevole e ripugnante dei crimini. Un atto che, se vivessimo in un mondo normale, avrebbe dovuto suscitare un immediato, universale, incondizionato moto di esecrazione. Ma non viviamo in un mondo normale. Furono pochi, allora, e anche in seguito, a condividere l’indignazione del campione: il Cio rifiutò di sospendere i giochi neanche per un solo giorno, alla cerimonia di chiusura parteciparono tutti – tranne la delegazione israeliana – felici e contenti, come se niente fosse successo e, negli anni successivi, non si è mai voluto dedicare una cerimonia in memoria degli atleti massacrati dai mostri assassini.
Mennea ricorda come le richieste di maggiori misure di sicurezza, da parte di Israele, fossero andate disattese, e ricorda anche, con precisione e puntualità, la lunga e meticolosa operazione di rappresaglia messa in atto dal governo di Gerusalemme, che portò, con grande dispendio di energie, alla eliminazione fisica dei responsabili (purtroppo, anche con un grave, involontario errore, che causò,l’uccisione di un innocente). La Bibbia ammonisce a “non gioire quando il nemico cade”, e la morte di esseri umani non può mai essere motivo di letizia. Ma, in quel caso, non si può non esprimere la più assoluta e incondizionata solidarietà verso gli uomini dei servizi di sicurezza che misero in atto l’operazione “Wrath of God”, “Vendetta di Dio”. Se si fosse vissuti in un mondo normale, ripeto, avrebbe dovuto essere l’intera comunità internazionale a colpire immediatamente le belve. Ma il mondo era in tutt’altre faccende affaccendato, e le vite degli ebrei, in Germania, solo ventisette anni dopo la caduta del nazismo, evidentemente non valevano molto più di quanto valessero ventisette anni prima. Israele era solo. Dovette agire da solo, e lo fece. E va ricordato, al proposito, che la parola “vendetta” ha acquisito un significato negativo, nella lingua italiana, solo in tempi recenti, mentre prima, per lunghi secoli, è stata, semplicemente, sinonimo di giustizia (basti leggere Dante). Quella di Israele è stata un’azione di giustizia, e anche un’azione di fondamentale valore preventivo: è assolutamente certo che molti terroristi, dopo di allora, ci avranno pensato due volte prima di agire, sapendo a cosa sarebbero andati incontro.
Onore alle dodici vittime (i cinque atleti, i quattro allenatori, i due arbitri e il poliziotto tedesco rimasto ucciso nel fallito tentativo di intervento armato) e agli uomini dei servizi di sicurezza israeliani che schiacciarono la testa dei serpenti velenosi. E onore al grandissimo Pietro, che, a sette anni dalla sua scomparsa, continua a correre, più veloce della luce.
Francesco Lucrezi
(15 luglio 2020)