Machshevet Israel Misoginia e antisemitismo
Nei prossimi giorni avrebbe dovuto tenersi, a Camaldoli, la prima Settimana di studi internazionali sull’ebraismo italiano, promossa tra le altre istituzioni dal Cdec di Milano e dedicata al tema del contributo delle donne ebree. La situazione sanitaria ha costretto a rimandare di un anno il progetto ma in forma ridotta le sessioni tratteranno ugualmente di storia ebraica italiana. Nondimeno la questione femminile, da qualunque punto di vista la si consideri, resta una frontiera del pensiero ebraico contemporaneo proprio perché le ‘voci’ delle donne sono per lo più sotto-udite e sotto-stimate nella tradizione ebraica. Ho già detto altre volte che considero quella femminile/femminista la più grande rivoluzione del Novecento. Che il mondo ebraico sia in fermento su questo fronte è più che naturale. Che serva al riguardo un sovrappiù di pensiero non va spiegato. Che in generale una lunga tradizione misogina, connessa al superomismo razzista, sia parente stretta dell’antisemitismo è, purtroppo, un fatto storico. La misoginia e l’odio di sé concentrati in Otto Weininger sono il caso più citato.
Il dossier di marzo di Pagine ebraiche dedicato alle ‘donne’ documenta che c’è grande sensibilità al tema anche nelle comunità ebraiche italiane, eco (o solo riflesso?) degli intensi dibattiti e delle non rare iniziative simboliche in corso da decenni nella società israeliana. Le questioni halakhiche sollevate da Anna Segre e Miriam Camerini in quella sede, a ben vedere, non suonano ormai più come provocatorie, tanto è accettato il principio che “quel che non è vietato, è permesso”. Tuttavia la prassi, anzi l’ortoprassi, ha sempre bisogno di essere giustificata, vuole fondarsi, deve ancorarsi sia nella tradizione stessa (per esserne legittimata) sia in una visione più ampia, olistica del giudaismo stesso. Interessante vedere l’impiego del nuovo nome di morà ruchanit ossia maestra/guida spirituale, al posto dell’ambiguo rabbanit (sempre le novità sostanziali cercano un nuovo linguaggio per affermarsi nella loro specificità), sebbene si potrebbe obiettare: perché solo ruchanit? Non è tale ruchaniut solamente una delle dimensioni del giudaismo? Non siamo dinanzi a una ripetizione del cliché maschile della donna-castellana, signora dell’interiorità, cliché che lasciava di fatto all’uomo – inteso come maschio – la sfera dell’esteriorità, vale a dire l’intero mondo e il potere effettivo su cose e rapporti? Il linguaggio è sempre traccia dell’evoluzione della mentalità e del costume (minhag), anche nell’ebraismo, e che su questo fronte l’evoluzione stia avendo un’accelerazione è sotto gli occhi di tutti. Proprio per questo assistiamo a reazioni, a istanze di resistenza, al ritorno di parole e pensieri vetusti che rispolverano un superomismo o (per usare un anglismo) un suprematismo che ha precisi connotati razzisti e antisemiti.
Date le scarse riflessioni filosofiche sulla differenziazione tra i sessi – eccezione in ambito ebraico Hans Jonas, tra i pochi capaci di riconoscere nel vuoto teoretico sul “principio femminile” il peccato originale di tutta la filosofia occidentale – mi volgo a Virginia Woolf, la quale individua nel bisogno di fiducia in se stessi la matrice dell’istinto superomistico-razzista, che storicamente si è declinato spesso come misoginia. “Come possiamo generare in noi, nel modo più sbrigativo possibile, questa imponderabile qualità?” – si chiedeva la scrittrice inglese nel 1929, avendo ben presenti i rigurgiti di machismo della retorica fascista, e rispondeva – “Pensando che gli altri sono inferiori a noi. Pensando che possediamo qualche superiorità innata rispetto agli altri (può essere la ricchezza o il rango, il naso diritto o il ritratto del nonno… poiché i patetici sotterfugi dell’immaginazione umana sono infiniti). Perciò riesce così importante, per un patriarca il quale deve conquistare, deve governare, la possibilità di sentire che moltissime persone, addirittura la metà della razza umana, sono per diritto di natura inferiori a lui” (da: Una stanza tutta per sé, libro la cui lettura dovrebbe essere obbligatoria nelle scuole superiori). Il suprematista-razzista è un insicuro, inabile a riconoscere la propria fragilità; l’odiatore delle donne è un maschio dall’autocoscienza infelice, e spesso malata; l’antisemita è un individuo dall’identità parimenti infelice, irrisolta, deficitaria di qualità fondamentali per un sano rapporto con il mondo. Sentirsi ‘superiori per diritto di natura’ li fa sentire meglio, permette loro di reggere la soglia della propria fragilità esistenziale, dà loro l’illusione di avere un posto certo nel mondo. Quanta teologia e quanta filosofia hanno cercato quel ‘diritto di natura’! Fino ad Hegel la spina dorsale della filosofia, ricorda ancora Hans Jonas, è costituita da maschi non sposati. Sorpresa che fossero tutti anche ‘antigiudaici’? Una volta Yeshayahu Leibowitz disse, in un’intervista, che la questione femminile è meta-halakhica. Voleva dire che tale questione esula dall’orizzonte delle discussioni talmudiche, oppure che la sua elaborazione è così importante da essere un prerequisito, come la logica, per ogni ragionamento halakhico?
Massimo Giuliani, Università di Trento