Il dossier di Pagine Ebraiche
Cinema, linguaggio che unisce

“Direi che le sale cinematografiche – come le compagnie aeree – si riprenderanno con vigore, e forse si troveranno addirittura in una posizione migliore di prima. La gente avrà un disperato bisogno di una vera esperienza di intrattenimento comune, e questo è ciò che offrono la musica dal vivo, lo sport, Broadway e i film nelle sale cinematografiche. Come dice il vecchio detto, non conosciamo mai il valore dell’acqua finché il pozzo non si prosciuga”.
In queste parole tutto l’ottimismo, forse forzato dagli eventi, di Tom Rothman, presidente del Sony Pictures Motion Picture Group, in merito al futuro del cinema nel dopo-pandemia. Rothman, illustre rappresentante di quel mondo americano che unisce identità ebraica e cinema, esprimeva questa sua valutazione in risposta a un non altrettanto ottimistico articolo del New York Times del marzo scorso. Nel pezzo del quotidiano americano si prevedeva un futuro di gravi perdite soprattutto per le sale cinematografiche e la grande distribuzione, contando l’ascesa verticale dello streaming e il problema di garantire nei cinema – una volta riaperti – il distanziamento sociale. Già da tempo sempre più spettatori hanno cambiato abitudini preferendo vedere i film nelle proprie case invece che l’opzione biglietto e popcorn. La pandemia ha premuto l’acceleratore su questa transizione. Forse a riuscire a resistere meglio all’onda del cambiamento saranno i festival dedicati al cinema, emblema di una comunità che si raccoglie per condividere assieme la propria passione per il grande schermo. Alcune rassegne hanno fatto saltare l’edizione di quest’anno, altre hanno scelto di far sentire al pubblico la propria vicinanza mettendo in streaming i propri film. E poi c’è il Jerusalem Film Festival che ha scelto di posticipare di qualche settimana l’apertura, auspicando che a fine agosto l’emergenza sanitaria sia sotto controllo. Tra gli amanti del cinema israeliano per il momento l’interrogativo è con cosa aprirà il festival più che se si farà o meno. Secondo molti sarà Honeymood di Talya Lavie, una sorta di commedia romantica con black humor che potrebbe alleggerire il peso di queste settimane di chiusure e preoccupazioni. Altri film attesi sono Asia di Ruthy Pribar, con la star di Unorthodox Shira Haas, e Sublet di Eytan Fox. Il primo sul rapporto complesso tra madre e figlia di origine russa, il secondo su una relazione tra due uomini ambientata tra New York e Tel Aviv.
Nel dossier “Cinema” su Pagine Ebraiche di luglio in distribuzione, curato da Daniel Reichel, anche uno sguardo in anteprima alla prossima edizione del festival del Nuovo cinema ebraico e israeliano curato dalla Fondazione Cdec, che quest’anno sbarca online. Quest’anno, come spiega Daniela Gross, mancherà l’incontro con i protagonisti dei film. Per entrare in sintonia con le situazioni e i personaggi basterà però affidarsi, ogni sera alle 21, all’introduzione del direttore scientifico della rassegna Sara Ferrari. Il suo è un invito a lasciarsi conquistare: “Il cinema israeliano non arriva in Italia con facilità e le sue storie non sono sempre immediate per gli spettatori. Per quanto presenti sui media, gli scenari mediorientali restano per certi aspetti sconosciuti”.
Nuovi film dunque per tornare a guardare il grande schermo e farsi intrattenere dalle immagini e dalle storie che scorrono. E come sostiene Rothman, forse dopo la pandemia avremo ancor più bisogno di farlo insieme.

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(17 luglio 2020)