Uno, nessuno e centomila
Partecipiamo delle lotte per l’emancipazione collettiva. Beninteso, non più quella sociale (l’accesso ai diritti comuni, quindi al reddito e alla formazione, due architravi dell’indipendenza personale e collettiva nel Novecento, ebrei o non che si sia) ma a quella legata alla persona intesa come un assoluto. Che non è, per inciso, la vittoria del liberalismo bensì dell’individualismo. In quanto quel rimando all’assoluto non rinvia ad un soggetto collettivo bensì ad una cornice personale: di gusti, di condotte, di atteggiamenti e cos’altro. Qualcosa che è comunque, per più aspetti, confacente a ciò che definiamo con la parola «liberismo». Che ci sta sempre più spesso dissodando, disarticolando impedendo di condividere altro che non sia la nostra immagine riflessa. Quella di persone isolate. Liberismo, per intenderci, in questa accezione – che rinvia alla solitudine del soggetto economico in un luogo astratto chiamato “mercato” – nulla ha a che fare con liberalismo, semmai essendone una sorta di reciproco inverso. Infatti, si parla di ognuno – anzi, di “un ognuno” – per non parlare dei tutti. Quando diciamo “ognuno”, ci riferiamo agli infiniti modi in cui ciascuno di noi può pensare di potere dire “io sono”. Non di certo: “noi tutti potremmo essere”. Poiché quest’ultimo impegno è diventato invece uno sforzo eccessivo, in quanto la nozione stessa di società, vista come un insieme di individui senz’altro diversi tra di loro ma uniti da una rete costante e continuativa di interconnessioni, fa a pugni con l’individualismo della «modernità liquida», così come il sociologo Zygmunt Bauman aveva riqualificato lo spirito della globalizzazione. Nessun moralismo, beninteso; poiché parlare di individualismo – che è cosa ben diversa dal riferirsi all’individuo – tanto più in questo caso, non ha valore alcuno di giudizio morale. Proprio da quest’ultima, per l’appunto la cosiddetta globalizzazione derivano semmai due spinte apparentemente antitetiche: la prima è quella all’intercambiabilità permanente dei ruoli sociali (e quindi, il senso della loro sostanziale fragilità, essendo in costante regime di revocabilità, ossia di precarietà totale, mai sanciti una volta per sempre, costringendo pertanto gli individui a comportarsi come il criceto nella ruota, il quale corre sempre senza avere nessuna meta); la seconda, simmetricamente opposta alla prima, è l’esasperata ricerca di un qualcosa su cui invece fissare una parte di se stessi, un elemento al quale ancorarsi per non sentirsi trasportare via dalle ripetute mareggiate del cambiamento continuo. Non importa se, tanto più in quest’ultimo caso, la “fissazione” è di per sé illusoria; semmai, conta il modo maniacale con la quale viene ripetuta. Poiché per il fatto stesso di essere reiterata, diventa, ai nostri occhi, un riscontro di veridicità. In quanto ciò che è bloccato, come se fosse indice di eternità, non è mai un dato della realtà bensì il modo in cui si reinterpreta e si intende la stessa realtà, altrimenti incomprensibile, ovvero per ciascuno di noi insopportabile. L’incomprensibile non è mai ciò che non possiamo capire ma quanto, invece, pensiamo che non riesca a capirci e, quindi, ad accettarci. Ossia, a comprenderci, nel senso etimologico di «prendere con sé» (contenere in se stessa); quindi, di trattenere e non espellerci. Spesso, non temiamo gli altri da noi; abbiamo paura semmai che siano “quegli altri” a non volerci tollerare. Il dispositivo razzista, infatti, si basa non solo sulla stigmatizzazione del “diverso” ma, soprattutto, sulla sopraffazione che la massa critica dei cosiddetti “diversi” potrebbero esprimere, una volta divenuta preponderante, contro una comunità che si sente a sua volta soccombente dinanzi allo scacco della realtà e, con essa, del cambiamento in corso. Non stiamo giustificando il razzismo, beninteso. Semmai, cerchiamo di capire quali siano i moventi che stanno alla base dei razzismi. Poiché in essi si deve comunque cogliere non solo il disagio che esprimono, insieme all’insopportabile rabbiosità, ma anche il senso di abbandono che i cosiddetti “razzisti” manifestano rispetto a se stessi. Abbandono al proprio destino, contro il quale lottano con le armi che hanno a disposizione, quelle del rigetto della realtà medesima, costruendosi dei capri espiatori. Altrimenti, in qualsiasi cosa si vada facendo, si rischia di cadere nelle paludi del moralismo, che condanna senza capire. Esattamente ciò che gli imprenditori politici del razzismo, presenti in politica un po’ ovunque (in quanto iene della crisi in atto), invece si attendono che avvenga. Una sorta di scacco matto verso se stessi. Nella vita, il più delle volte, l’uomo non cerca il giusto e neanche il vero. Semmai il consolatorio. Benché apparentemente oppositivi, i due movimenti dello spirito odierno (essere tutto, nel nome di un mondo “senza confini”; oppure, trincerarsi nel ridotto di una comunità di presunti eguali, che non ammette null’altro che non sia identico a se stesso) partecipano non solo del medesimo tempo storico ma anche degli stessi bisogni. Nel primo caso, ancora non molto tempo fa celebrato ingenuamente come manifestazione dell’essere «cittadini del mondo», viene detto a tutte le donne e agli uomini che non possono contare su altro che non sia il lasciarsi trasportare dal flusso del momento, salvo poi frapporgli impedimenti di ogni genere, a partire dalla loro stessa mancanza di risorse; nel secondo, invece, sono le donne e gli uomini che rispondono allo spirito dei tempi, riconoscendosi in una passione fusionale, in una sorta di «noi», arroccato ed inaccessibile a quanti non appartengano al gruppo di riferimento: i sovranismi, al pari dei nazionalismi, si inscrivono in una tale dinamica. La rivendicazione di riconoscimento della propria specificità di gruppo (in genere ciò che nel passato determinava l’emarginazione dal consesso sociale in virtù di alcuni specifici tratti inconciliabili, essendo in ragione di essi ritenuti incompatibili con una “norma” di omogeneità allora dominante) entra oggi a pieno titolo in un tale quadro di riferimento. Il tutto s’ingenera in una cornice di tentata liberalizzazione dei ruoli sociali, dove tuttavia la matrice individualista prevale su molti altri ordini di considerazioni. Diventando quindi, a sua volta, un assoluto. Si dice di essere contro la “norma”, intesa come imposizione dall’alto, ossia da parte di poteri coercitivi sui quali nessun controllo popolare può avere la meglio, quando poi si disseminano i rapporti sociali di nuove norme di condotta, ispirate a idealità che, ben presto, si cristallizzano in nuovi codici di comportamento. Ciò che infatti viene richiesto, è che le istanze identitarie siano assunte da parte non solo degli ipotetici membri del gruppo ma anche – e soprattutto – dal contesto sociale e civile prescindendo da qualsiasi negoziazione e, con essa, condivisione. Qualcosa del tipo, bianco o nero. Prendere o lasciare. In genere, affinché ciò possa concretamente avvenire, il nesso che serve a rendere più dirompente la domanda in tale senso è la costruzione di una connessione immediata il richiamo alla specificità e la vittimizzazione. Detto in altre parole, le persone, come tali, non sempre piacciono: le vittime, invece, sì. Nell’arena politica odierna, lo status di vittima è estremamente premiante. Esso evoca il diritto non solo al riconoscimento ma anche, e soprattutto, al risarcimento. Il quale non implica una richiesta di accesso a diritti (comuni) bensì a forme di compensazione di gruppo. Una tale condotta, quando va generalizzandosi, è tuttavia indice della rottura delle alleanze tra svantaggiati. Così come del tramonto di un orizzonte di aspettative comuni. La contrattazione e lo scambio sono parti fondamentali del processo di costruzione e ricostruzione di ciò che appelliamo con il nome di «identità». In quanto essa non è mai una essenza statica bensì il risultato di continue negoziazioni con l’altro da noi. Ovvero, con l’ambiente che ci circonda. Il fondamentalismo, invece, corrisponde alla negazione della contestualità (l’ambiente pluralistico) e alla storicità (lo scorrere del tempo) che ci accompagnano. Astruserie, quanto detto fino a quest’ultima riga? Filosofia fine a sé? Forse. Ma sia ben chiaro, a nessuno escluso, che la vita non è solo una condizione biologica bensì autoriflessiva. In altre parole: o si torna a riflettere su se stessi, facendo di necessità virtù, oppure subiremo la potenza di ciò che non dominiamo. Non un disegno divino, per intenderci, bensì la disumanità di chi ha troppo potere, senza essere per ciò contrastato. Questione che nulla ha di “etnico” ma molto di sociale e civile. E che oggi è invece del tutto incompresa. Venendo sostituita da quella finzione di lotta e conflitto che sono l’abbattimento delle statue, l’imposizione di canoni di condotta, di espressione in pubblico ed anche di pensiero ai quali non corrisponde un reale mutamento bensì il rischio di nuove ortodossie. Immediatamente dietro l’angolo.
Claudio Vercelli