Il dossier di Pagine Ebraiche
Le identità di Israele sullo schermo

Kadosh, il noto film del regista Amos Gitai, inizialmente non fu accolto bene in Israele. “Ricordo la prima volta che lo vidi. Ne fui irritata. Mi sembrava fosse una rappresentazione troppo brutale della società religiosa, una generalizzazione pericolosa” spiega Sarah Kaminski, docente di ebraico all’Università di Torino. “Riguardandolo a distanza di tempo, si vede invece il procedimento contrario: è un racconto fedele, seppur violento, di una sfaccettatura del mondo haredi di Mea Shearim. Per farlo, Gitai ha studiato a fondo questa realtà. Voleva una rappresentazione fedele. E anche per questo ha chiesto che all’estero si mantenesse il titolo originale: Kadosh. Perché già nel titolo c’è l’identità del film”. Gitai, spiega Kaminski, non si nasconde e mette in campo le questioni più ruvide e complesse. O per dirla con le parole dello stesso regista: “Quel che bisogna assolutamente evitare in Medio Oriente è la visione monodimensionale delle cose. Concentrarsi su un microcosmo permette di evitarlo…Cambio microcosmo di film in film e, a poco a poco, la visione si allarga, ed è come se finissi per disegnare un puzzle fatto di una serie di enclavi”. Un’operazione di scomposizione in pezzi identitari che ha adottato anche Kaminski in un recente seminario organizzato per gli studenti dell’Università di Torino. Un percorso nel cinema israeliano fatto a tappe, dalle origini pre-Statali, passando per i legami con il cinema yiddish, il racconto delle diverse migrazioni in Israele, il riferimento al conflitto perenne, l’esplorazione della dimensione religiosa. Diversi filoni raccontati attraverso l’evoluzione cinematografica ma anche attraverso riferimenti culturali, letterari e sociali così come eventuali contraltari ai punti di vista dei singoli film. Un esempio è proprio Kadosh. “Tra i temi del film c’è l’imposizione del ripudio, da parte della comunità, al marito dalla moglie da cui non ha avuto figli. È vero che c’è un’interpretazione restrittiva del Talmud che lo permette ma agli studenti ho spiegato che ci sono esempi diversi: il Rebbe Lubavitch Schneerson che non ebbe figli dalla moglie ma mai la ripudiò. Anzi la Rebbetzin è sempre stata tenuta in grande considerazione”. Oggi poi, sottolinea Kaminski, c’è tutto un mondo di cinematografia prodotta per le donne religiose da donne religiose che ha un grandissimo successo. “Sono oltre 500 i film prodotti di cui nessuno parla ma che hanno creato un intero sistema culturale ed economico”. Una forma di emancipazione? “Non userei questo termine, sono donne haredi che raccontano se stesse attraverso i propri punti di vista e i propri valori. Dobbiamo fare attenzione a non imporre i nostri”. La forza di questi film, e di altri presi in esame durante il seminario, sottolinea la docente, è proprio quello di essere uno sguardo che parte da dentro la realtà: che siano sul conflitto o sull’immigrazione sono storie inquadrate attraverso la lente di chi conosce a fondo e dall’interno i singoli spaccati sociali. E sono anche il termometro delle diverse epoche attraversate da Israele: ne è un esempio, Oded Hanoded, Oded il vagabondo. Un lungometraggio in bianco e nero girato negli anni ‘30 in cui il giovane Oded, in gita con la classe nella natura, si perde e incontra per caso uno scienziato tedesco, anche lui smarrito. I due si salvano e il ragazzo diventa il simbolo del sabra coraggioso e amante della terra d’Israele mentre l’antagonista è la figura diasporica e smarrita dell’emigrante tedesco.
Nel corso del tempo sono poi diversi i registi che si sono cimentati nel raccontare il paese. Spesso però le voci più originali, da Ephraim Kishon a Uri Zohar, erano mosche bianche del cinema di qualità. “Una vera scuola è iniziata solo negli anni recenti, con il finanziamento di accademie. Da qui sono venuti fuori molti film dal successo internazionale, capaci di cogliere conflittualità e fascino d’Israele. Ora questo ciclo si è un po’ esaurito ma confido che dall’intreccio con il mondo high-tech (come accaduto con pensatori come Yuval Harari) emergerà qualcosa di nuovo. Un racconto di questa identità sempre in movimento”.

Pagine Ebraiche – Dossier Cinema

(20 luglio 2020)