Pagine Ebraiche – Dossier cinema
Il coraggio di inquadrare tutto il conflitto

Sono trascorsi settantadue anni dalla creazione dello Stato di Israele, ma i nodi principali della sua esistenza – la tragedia della Shoah e il conflitto con i palestinesi – continuano a essere presenti nella mente e nelle scelte di vita degli israeliani. La Shoah fa parte di un fardello che trova vie di elaborazione nella ricerca storica e culturale o attraverso l’analisi psicologica. Il conflitto, originatosi ai tempi dello Yishuv ed esploso dopo la Dichiarazione dello Stato d’Israele (15 maggio 1948) – avvenuta pochi mesi dopo il Piano di partizione della Palestina mandataria approvato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York (29 settembre 1947) – continua a costituire un punto di riferimento imprescindibile nella vita di ogni israeliano, dal servizio militare obbligatorio fino alle scelte politiche. Il primo film israeliano che presenta le conseguenze della Guerra d’Indipendenza in termini di tragedia umana e di guerra senza fine è Hirbet Hiza’a del 1979, tratto dall’omonimo racconto firmato da uno dei più importanti e innovativi scrittori israeliani, S. Yizhar (il libro in Italia è uscito nel 2005 con il titolo La rabbia del vento). Nella novella, scritta al termine della guerra, Yizhar mette in primo piano la questione morale ed etica in cui si trova un gruppo di soldati che in seguito agli ordini ricevuti svolge con una certa indifferenza e quasi sciatteria un’operazione di espulsione di abitanti palestinesi dalle loro case. Il protagonista Micha non comprende la motivazione strategica e militare dell’ordine e in modo piuttosto impacciato cerca di evitare l’allontanamento della gente dal villaggio. I comandanti e i soldati non sono coinvolti emotivamente e vorrebbero solo terminare la missione, evitare complicazioni e tornare a casa, mentre Micha, il soldato che incarna lo scrittore stesso, pone delle domande, cerca di dare una mano alle donne e ai bambini e porta acqua ai vecchi che sono stati caricati sui camion per essere portati fuori dai confini di Israele. Il racconto, come scrive la storica Anita Shapira (Shapira 2000), fu pubblicato nel contesto di un dibattito politico aperto e molto liberale, che coinvolse i lettori e i leader sionisti dell’epoca. Nel 1959 S. Yizhar vinse il Premio Israele e l’opera è ancora oggi in continua ristampa. Il film Hirbet Hiza’a fu prodotto dalla televisione trent’anni dopo la pubblicazione del libro, opera fondamentale nel complesso della letteratura israeliana contemporanea. Purtroppo la reazione di gran parte del pubblico e dell’establishment politico alla proiezione del film, diretto da Ram Loevy, nel 1978 fu estremamente negativa e produsse un’onda d’urto che portò gli oppositori guidati dal ministro all’Istruzione Zevulun Hammer della destra religiosa al divieto di proiezione. Dopo lunghi dibattiti, venne tuttavia rispettato il principio democratico che garantiva l’autonomia e la libertà d’espressione dei mezzi di comunicazione in generale e dell’unica rete televisiva israeliana in particolare. Il film fu trasmesso, ma la discussione sui giornali in merito all’episodio del trasferimento di un villaggio palestinese sollevò il dubbio sulla reale necessità dell’azione dei soldati e insinuò l’idea che fosse piuttosto un crimine di guerra; il film fu accusato di essere “ashafista” (sostenitore dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina) oppure citato come esempio coraggioso di auto coscienza. La pellicola si concentra sulla psicologia dei personaggi e soprattutto sul protagonista Micha che, come Yizhar, esprime l’esperienza di un combattente per la difesa di Israele e una profonda riluttanza in merito all’espulsione della popolazione civile araba. Sempre negli anni Ottanta un gruppo di giovani cineasti israeliani definito KaITZ (Kolnoa Israeli Tzair) e gestito da un innovativo gruppo di registi spinse il governo a costituire un fondo per la promozione di pellicole di alto valore culturale, non soggette solo al gusto popolare o alle pressanti restrizioni economiche. Prese così il via il cinema contemporaneo che metteva a lato i film popolari in stile “Burekas” o tipo Il Tempo delle Mele e spostava l’interesse sulla questione dolente del conflitto. Nel 1982 Daniel Wachsmann produsse il film Hamsin, Scirocco, (Eastern Wind, con riprese del noto fotografo D. Gurfinkel), aprendo così una nuova epoca, definita dalla studiosa del cinema Ella Shoahat, The New Palestinian Wave. I personaggi sono israeliani e palestinesi; ebrei, musulmani o cristiani; arabi e non. Gli attori di Hamsin sono palestinesi e parlano arabo palestinese ed ebraico. La storia si svolge in Galilea e narra di un allevatore ebreo israeliano che vuole comprare terreni dai vicini palestinesi; l’intervento delle autorità locali, intenzionate a confiscare le proprietà, complica la conclusione dell’affare. L’allevatore nel mentre scopre la storia d’amore tra la sorella Chava e il suo dipendente Haled. La fine è tragica: Haled viene assassinato poiché ha violato il codice d’onore della famiglia ebraica e di tutto il villaggio. Nello stesso filone, nel 1986 Uri Barabash dirige il film Dietro le sbarre, con il grande attore palestinese Muhamad Bakri e con Amnon Zadok e Assi Dayan. Il film si svolge all’interno di una prigione di alta sicurezza e tratta di giustizia e del senso di collegialità e di lealtà tra prigionieri ebrei e palestinesi. Un altro film che segna la svolta tematica e qualitativa nel cinema israeliano è Avanti popolo di Rafi Bukaee (1986). Siamo ai tempi della guerra dei Sei Giorni (1967) e quattro soldati egiziani si perdono nel deserto del Sinai dopo la disfatta del loro esercito. La narrazione continua la linea personale dei film precedenti ma evidenzia, con una visione surreale e un triste umorismo, l’assurdo della guerra. Doveva essere una pellicola a basso budget, realizzata come progetto di fine studi di Bukaee, ma durante le riprese e con l’aiuto e i suggerimenti dei due attori palestinesi il copione si arricchì, rendendo le scene più reali e l’approccio artistico al conflitto decisivamente originale. Alla fine il protagonista del gruppo dei dispersi egiziani, Salim Dau, riesce a scavalcare la duna di sabbia e corre verso le truppe egiziane, ma scivola e viene ucciso da un fuoco incrociato, dunque non si sa se a sparargli sono stati gli israeliani o i suoi compagni arabi. Dal 2000 i cineasti israeliani rompono ogni tabù, si parla di Shoah con storie di memoria e antieroismo, omosessualità e capacità di riparazione e forse addirittura di perdono, come mostra il film di Eitan Fox Camminando sull’Acqua (2004), capostipite del trend che riecheggia in The cakemaker (Il pasticciere) di Ofir Raul Graizer del 2017. La sposa siriana di Eran Riklis del 2004 rivela l’assurdità dei confini bloccati dalle guerre senza fine, della burocrazia israeliana e siriana e delle forze clownesche dell’Onu, garanti della pace tra i due stati nemici. Non si tratta di una storia palestinese, ma drusa, e con mezzi estetici raffinati Riklis svela al mondo i costumi di un’antica comunità, quella drusa, che vive tra Israele, Siria e Libano. Tra i sottogeneri che parlano del conflitto e in particolare del senso di annichilimento troviamo Kippur di Amos Gitai (2000), Beaufort di Josef Cedar (2007) e Libano di Samuel Maoz (2009). Questo filone trova piena realizzazione nell’eccellente film di animazione Walzer con Bashir. Racconto autobiografico del regista e sceneggiatore Ari Folman, che 20 anni dopo la guerra in Libano cerca di recuperare la memoria e ricostruire il suo vissuto di soldato che affronta il massacro compiuto dalle falangi cristiane nei campi profughi di Sabra e Shatila. Un capolavoro di rielaborazione e un documento politico importante.

Sarah Kaminski, Pagine Ebraiche luglio 2020