Periscopio
Dialogo tra generazioni
Mi pare davvero di grande valore l’iniziativa di Pagine Ebraiche di dar vita a tre rubriche audio (Pagine di storia, Pagine di letteratura e Pagine e svolte), nelle quali uomini di cultura sono invitati a illustrare i contenuti e i messaggi dei libri che hanno particolarmente influenzato la loro vita e il loro percorso intellettuale, aiutando gli ascoltatori a interrogarsi sugli articolati e misteriosi meccanismi di trasmissione dei messaggi, sulla complessa e multiforme relazione tra autore e lettore. Come è difficile scoprire in che modo nascano gli amori e le amicizie (corrispondenze di sentimenti e di idee, certo, ma anche, ovviamente, le fortuite e casuali occasioni degli incontri), così è arduo capire come e perché alcune pagine colpiscano, magari secoli o millenni dopo essere state scritte, l’animo di qualcuno. Si tratta di un dialogo tra generazioni che è anche una costante lotta contro l’oblio, la dimenticanza, il silenzio. La parola cerca di lasciare un segno nella storia, di dare un significato ai nostri giorni. Ma essa, da sempre, ha anche molti nemici. Non solo il tempo, che tende, inesorabilmente, a cancellare tutto, ma anche lo stesso rifiuto degli uomini, che, molto spesso, non vogliono ascoltare, leggere, pensare. E quando le parole sembrano in grado di schiudere nuove porte della conoscenza, poi, capita spesso che esse vengano deliberatamente rifiutate.
Mi rammarico di non avere ascoltato il primo intervento di Pagine di storia, in cui Giacomo Todeschini ha parlato del grande Marc Bloch – uno dei padri della storiografia contemporanea -, e ho letto con grande interesse la breve sintesi del suo discorso pubblicata sul numero di giugno di Pagine Ebraiche, edizione cartacea. Il suo invito a riavvicinarsi alla lezione del grande medievalista – che, nota Todeschini, risulta oggi “un po’ mitizzato e museificato” – appare molto importante, in un’epoca in cui la dilagante incultura e ignoranza sembra richiedere, per propiziare il voluto “sonno della ragione”, un sistematico processo di svuotamento e banalizzazione della conoscenza storica, la cui funzione viene, nel migliore dei casi, ridotta a una sorta di semplice “premessa” dell’analisi del presente, l’unico tempo che sembra davvero interessare. E neanche il presente di tutti, ma solo quello individuale. Quanti soldi ho, quanto benessere, quanta assistenza, quanta sicurezza. Degli altri, chi se ne importa, e di quelli vissuti prima di noi, poi…
I debiti della moderna storiografia nei confronti di Bloch sono immensi, in quanto, come fondatore, nel 1920, insieme a Lucien Febvre, dei celeberrimi Annales d’histoire économique et sociale (straordinaria fucina di pensiero e di sperimentazione metodologica) seppe animare un dibattito interdisciplinare di formidabile vivacità e novità, che segnò una svolta irreversibile non solo nel modo di ricostruire il passato, ma anche nell’elaborazione dello stesso concetto di storia. Se è solo nella seconda metà dell’Ottocento che la storiografia è assurta a dignità di “scienza”, sarà solo con gli Annales che tale scienza ha mutato il suo volto, passando dal racconto cd. “evenemenziale” (quello che dà conto solo dei grandi “eventi”: guerre, rivoluzioni, pestilenze ecc.) alla narrazione “globale”, nella quale trovano spazio anche le vite minute dei singoli uomini – e non solo dei protagonisti – che hanno fatto, o subito, la storia. È grazie a Bloch e a Febvre (e, dopo di loro, a Braudel, Le Goff, Foucault e altri) se, nella storiografia, sono entrati gli importantissimi elementi della cd. “cultura materiale” (l’alimentazione, il vestiario, la produzione, lo scambio…), come anche quelli della sfera interiore delle persone (i sentimenti, l’amore, la paura, la morte…). E, tra i testi di metodologia che hanno maggiormente contribuito alla mia formazione di storico, un posto di primo piano occupa, certamente (accanto ai libri di Carr, Marrou, Momigliano, Orestano, Casavola e pochi altri) il grande Apologia della storia, pubblicato postumo nel 1949, dopo che il suo autore, in quanto ebreo e partigiano, dopo tre mesi di torture, era stato fucilato dagli invasori tedeschi, il 16 giugno del 1944.
Certo, tutte le lezioni metodologiche sono destinate a essere superate, ed è vero che la scuola degli Annales ha conosciuto degli eccessi (per esempio, nello svilire eccessivamente l’apporto delle grandi personalità nel processo storico), e che è stato sbagliato mitizzarla, così come un errore è stata l’idolatria della storiografia marxista, che ha certamente portato più danni che benefici. Ma è altrettanto certo che, senza quell’esperienza, il mestiere dello storico sarebbe oggi del tutto diverso.
Ci sarebbe tanto bisogno, perciò, di ripercorrere il senso di quella esperienza, di riflettere sulle sue conquiste e sui suoi limiti, cosa che – forse per reazione ad alcuni decenni di sovraesposizione – non sembra invece avvenire. Ma, come tutte le scienze e le arti, anche la storiografia conosce diverse fasi. Quella della creatività e della sperimentazione appare alquanto inaridita e, in tutto il mondo, sembra prevalere una certa pigrizia, una tendenza alla mera ricapitolazione e risistemazione di quanto già scoperto. Con l’eccezione di alcune importanti voci innovative, che non mi paiono però provenire dalla Francia – la patria di Bloch, Febvre, Braudel, Le Goff e Foucault -, né, in generale, dal Vecchio Continente, che pare, su questo piano, alquanto depresso.
Francesco Lucrezi
(22 luglio 2020)