Ci salveremo solo insieme

Siamo stati fermi per tre mesi. Dal primo marzo, quando una catena di fervidi messaggi riguardanti la chiusura di tutti i musei causa emergenza sanitaria ha percorso i gangli vitali di comunicazione tra tutti noi, operatori didattici e addetti all’accoglienza dei servizi aggiuntivi della Soprintendenza Archeologica di Roma, fino al primo giugno, quando abbiamo varcato di nuovo, con mascherine e visori a rendere impacciati sguardi e movimenti, i varchi d’accesso del Colosseo.
Durante questi tre mesi, vissuti con straordinaria intensità, sono successe molte cose. Ho assistito, con sgomento ed ammirazione, a una straordinaria prova di forza e di resilienza da parte di tutti i miei concittadini: personale sanitario e lavoratori indispensabili, che sono stati nella prima linea dell’emergenza. Ho partecipato al lutto di quasi 35mila famiglie, leggendo ed ascoltando incessantemente le singole storie e seguendo i numeri delle statistiche, dietro alle cui cifre si nascondeva, sempre ed implacabilmente, il dramma di singoli esseri umani.
E molto presto mi sono resa conto che essere ebrea, in questa situazione, ha costituito uno dei principali motivi del mio coinvolgimento particolare in questo flusso di eventi. Molti grandi temi emersi nelle riflessioni di questi mesi: l’empatia, la solidarietà, la dedizione verso il valore della singola vita, il rispetto verso gli anziani, la necessità di elaborare il lutto e preservare la memoria delle persone care, hanno una particolare risonanza se visti da una prospettiva ebraica. Il tempo diluito del lockdown per noi veniva ritmato da festività ebraiche vissute in maniera radicalmente nuova: la lettura della Meghillat Esther attraverso Zoom, un Pesach in cui il significato di Mitzraim, nel senso di ristrettezze fisiche e spirituali, ha acquisito una coloritura nuova che sarà difficile dimenticare. Imparare l’ebraico attraverso le lezioni dell’Ulpan UCEI online è stato praticamente l’unico perno di normalità rimasto in un quotidiano costellato da divieti e venato dalla paura.
Ho tratto molto giovamento dagli ottimi webinar della Comunità ebraica di Milano che hanno trattato molti aspetti importanti dell’emergenza sanitaria. Mi rassicurava la sensazione di appartenere a una grande comunità, tra Italia, Israele e la Diaspora tutta, collegata da fili, invisibili ma potenti, di atti di solidarietà. La voce di Noa, che dalla sua casa in quarantena diffondeva un concerto di solidarietà per l’ospedale di Bergamo, ha ben rappresentato questo tipo di anelito.
Sono stati mesi di inattività lavorativa, ma allo stesso tempo di intenso raccoglimento e meditazione. Goffredo Bettini, all’inizio di maggio sul Corriere, parlava della necessità di “ingigantire le riserve di umanità in ognuno di noi”. Penso che la riserva accumulata debba servire a curare le tante ferite che questa ondata di emergenza sanitaria ha creato. Raccontare storie, che è il mio lavoro quotidiano in tempi non sospetti, ha aiutato me e dovrà aiutare tutti a dare un senso a tutto ciò che abbiamo vissuto e che ha profondamente cambiato le nostre esistenze. Ho scritto un progetto intitolato “La Cura”, che vorrei sviluppare con bambini e ragazzi, in quella che dovrà essere la scuola, nuova negli spazi e nei contenuti, a partire da settembre. Nei laboratori proposti, da svolgere in armonia con le sensibilità degli insegnanti interessati, si fa uso degli strumenti dell’arte, dell’archeologia e della letteratura antica e moderna per cercare chiavi interpretative che possano facilitare la comprensione dei fenomeni e lo sviluppo di riflessioni individuali da parte dei ragazzi. Possono indurre processi creativi in grado di riverberare effetti positivi anche sugli adulti, coinvolgendoli nella creazione del racconto.
Il mio sogno ultimo sarebbe creare un ponte di comunicazione tra i ragazzi del Centro-Sud, colpiti soprattutto dall’esperienza del lockdown e dagli effetti della concomitante crisi economica, e i loro coetanei del Nord, che sono stati toccati molto più profondamente, perdendo i loro cari, senza poter propriamente elaborare il lutto a causa delle rigide limitazioni imposte dalla pandemia. Vedere dei ragazzi che scambiano testi, video, creazioni artistiche frutto della loro elaborazione, istituendo gemellaggi di un tipo molto particolare, introdurrebbe un farmaco benefico nel tessuto sociale e nella vita di molte famiglie.
Nello sviluppare queste considerazioni, mi è stato di grande stimolo lo scambio di opinioni con David Gerbi. In passato sono stata partecipante attiva di diversi suoi seminari. Durante la presente emergenza, Gerbi ha svolto un proficuo lavoro di gruppo attraverso Zoom, facendo emergere riflessioni collettive importanti che si armonizzano notevolmente con i risultati espressi attraverso il mio lavoro. Un lavoro congiunto di workshop di ascolto e di creazione, di cui potrebbero usufruire persone colpite dalla pandemia potrebbe essere un nostro ulteriore auspicio.

Krisztina Ruth Di Cave

(23 luglio 2020)