Letture facoltative
Il cavaliere svedese

I romanzi di Leo Perutz? Buoni per “lunghi viaggi in treno”, diceva frettolosamente Bertolt Brecht. Jorge Luis Borges, al contrario, includeva Perutz nella stretta cerchia degli autori più cari, continuamente letti e riletti. Leo Perutz, nato a Praga nel 1882 in una famiglia di antica origine spagnola, è uno dei tanti ebrei cittadini della Mitteleuropa costretti a vivere da apolidi in un mondo di nazioni in armi. Nel 1938, con l’annessione dell’Austria alla Germania nazista, lo scrittore lascia Vienna per la Palestina mandataria, ma la permanenza nella regione che i sionisti stanno trasformando ha per Perutz il solo aspetto dell’esilio. La lingua in cui scrive ma soprattutto pensa, cioè vive, anche negli anni della guerra e della Shoah continua a essere il tedesco, a costo di passare per Nestbeschmutzer, letteralmente “insozzatore del (proprio) nido”, di fatto sinonimo di traditore. Ma patria di Perutz è l’Europa lontana e forse per sempre svanita, mentre il confino accentua il senso di anticonformismo, estraneità, non appartenenza. Il proprio libro che reputava migliore è “Il cavaliere svedese” (Adelphi), un romanzo fantastico senza bisogno di effetti speciali, cioè di manifeste infrazioni della realtà. Qui, in un’Europa rurale, crepuscolare e nordica di inizio Settecento, si sviluppa una vicenda di furto di identità, doppio, maleficio e sogno.

Giorgio Berruto

(23 luglio 2020)