Tutto è bene quello
che finisce bene

Come si usa dire, tutto è bene quello che finisce bene. Ma è davvero finito bene il lunghissimo vertice tra i Paesi dell’Unione Europea? Se si guarda ai risultati immediati, certamente si respira l’aria dello scampato pericolo, dell’aver evitato una rottura che avrebbe significato la fine definitiva di ogni possibilità di politica comune tra i Paesi europei. Tra i risultati ottenuti c’è naturalmente anche quello di consentire ai paesi più fragili – e tra questi l’Italia – di far fronte per un certo tempo ai maggiori costi che la pandemia comporta. Ma, preso atto che si sono evitati guai peggiori, si deve anche essere coscienti che i problemi che caratterizzavano l’Europa alla vigilia del vertice sono ancora tutti presenti e che anzi il vertice ha evidenziato linee di frattura sempre più profonde tra i 27 Paesi che compongono l’Unione.
Sono linee di frattura destinate a riemergere non appena se ne presenti l’occasione e che vengono coperte soltanto con la rinuncia da parte dell’Unione Europea a caratterizzarsi come l’embrione di una unione politica. Dal vertice di Bruxelles emerge infatti non solo il contrasto tra i Paesi cosiddetti “frugali” e quelli mediterranei, che hanno avuto in questa occasione l’appoggio di Germania e Francia. Viene anche confermata la sostanziale perifericità, se non proprio l’estraneità, dei Paesi dell’Est europeo a ogni ipotesi che vada oltre il godimento di aiuti economici più o meno sostanziosi.
Non si intravede, dopo il vertice di Bruxelles, alcuna sostanziale modifica nelle linee di politica internazionale dell’Unione Europea. Non si intravede un cambiamento nella politica verso i due Paesi con i quali i legami dovrebbero essere particolarmente stretti – Stati Uniti e Israele – e verso i quali si continua invece ad avere un atteggiamento di diffidenza se non di ostilità. Tanto meno si intravede l’ombra di una politica che tenda a legare all’Europa i Paesi di quella che è stata chiamata la Magna Europa (Canada, Australia, Nuova Zelanda). Anzi, la Brexit ha ulteriormente indebolito i legami che potevano esserci con questi Paesi.
Il risultato è la continuazione di una politica in ordine sparso, con la Francia interessata soprattutto a mantenere le sue posizioni in Africa e la Germania che continua la sua politica del piede di casa, senza nemmeno tentare di andare oltre alla sua funzione di arbitro dei fragili equilibri intereuropei. Non c’è perciò da meravigliarsi che tutte le altre potenze globali allarghino progressivamente la loro sfera d’influenza, senza trovare una resistenza significativa. Ciò vale in particolare per Cina, Russia, Turchia, ma domani potrebbe valere anche per altri Paesi.
D’altra parte questa situazione appare irreversibile. Essa è frutto della scelta sciagurata che, all’indomani del crollo dell’Impero sovietico, quando un’Europa forte e compatta avrebbe potuto svolgere un ruolo centrale nella politica mondiale in stretta alleanza con gli Stati Uniti, al consolidamento dell’unione politica tra i Paesi fondatori con l’aggiunta di alcuni pochi che avevano dimostrato una sufficiente omogeneità politica ed economica, privilegiò la strada di un allargamento senza principi a Paesi che erano estranei al lungo processo di unificazione europea, con la conseguenza di moltiplicare Consigli e Commissioni ma di indebolirne la capacità di direzione politica.
Per questo si capisce che oggi i Paesi europei festeggino lo scampato pericolo ma qualunque ipotesi che andasse oltre a questa navigazione a vista non troverebbe solide fondamenta su cui poggiare.

Valentino Baldacci

(23 luglio 2020)