Lo spartiacque

Per ragioni di lavoro, sono tornato “in presenza”. Solo in parte, beninteso. Si dice così quando si usa il corpo e non il web per comunicare qualcosa. Ossia, si va sui luoghi e si vedono le persone (così come avviene viceversa, per intendersi; poiché gli altri non ci “osservano” attraverso una “finestra”, caotica e irreale, dominata dal monitor, bensì ci guardano dal vivo; una condizione che, fino a sei mesi fa, era del tutto ovvia e che adesso, invece, sembra quasi un miracolo). L’impressione è che l’Italia si stia muovendo a poco più di un terzo delle sue effettive capacità. Di ordine soprattutto economico (domanda e offerta). Se una tale tendenza dovesse confermarsi nel corso dei tempi a venire, allora le cose sarebbe decisamente problematiche. Ci verrà scusata l’ingenerosa tassatività dell’affermazione ma è evidente che i nodi stiano venendo al pettine. Quelli derivanti non tanto da una specificità negativa del nostro Paese (francamente, più retorica che sostanza, almeno quando si ritorna su una presunta “arretratezza” dell’Italia e degli italiani, come se essa fosse un fattore decisivo) bensì dalla fragilità costitutiva dell’economia internazionale e, con essa, degli stessi ordinamenti politici e, soprattutto, sociali, condivisi da un pianeta oggi più che mai affaticato. In riflesso immediato – qui il nesso si dà per davvero – dal nostro stesso Paese. Stiamo lavorando (e relazionando) ad un basso livello delle nostre effettive capacità. Nessuna catastrofe, all’orizzonte, beninteso. Non siamo sull’orlo dell’abisso. Ma senz’altro di una fenomenale velocizzazione di molti processi sociali, culturali ed economici che erano già presenti in fieri, ossia in origine, prima della crisi stessa originata dalla pandemia e ad oggi accelerati (per la loro velocità) nonché radicalizzati (in ragione dei loro effetti moltiplicativi). Non siamo attrezzati per subirne gli effetti. Sembriamo come quegli europei che, dinanzi, a Sarajevo nel 1914, ragionavano come se fossero stati non nel 1914 bensì nel 1815 (il Congresso di Vienna e la fragile restaurazione post-napoleonica). È questo, in fondo, il vero problema, non tutto il resto. La pandemia, ha messo in luce le tante fragilità che si accompagnano al tempo che stiamo vivendo ma che, fino a qualche mese fa, parevano ancora ovviabili con gli strumenti ordinari di intervento. Oggi così non è più. È come se invece ci avessero detto che «il re è nudo»: quello di un’economia senza ammortizzatori né adeguati sistemi redistributivi (e alle cui incongruenze sta ovviando, temporaneamente, il pesantissimo intervento pubblico, perlopiù effettuato in regime di indebitamento crescente); quello di una globalizzazione che, per esistere, necessita di una circolazione quasi esasperata di merci, oggetti, denari ma anche persone e parole mentre adesso, invece, sconta l’obbligo ad un lungo isolamento; quello di società, nazionali e di un agone internazionale, che hanno trasformato quanto un tempo era la guerra con le armi in un perenne conflitto basato sulla competizione economica e tecnologica. Non finisce il mondo, già l’abbiamo detto. Senz’altro, tuttavia, cambia il “nostro” mondo, quell’insieme di rapporti, legami, abitudini, consuetudini, condotte, atteggiamenti, gusti e scelte che da sempre ci paiono ovvie quando, invece, hanno rivelato la loro temporaneità. Con essa, anche la precarietà delle nostre esistenze, sottoposte come sono a condizioni comuni sulle quali, tuttavia, nessun individuo, nella sua soggettività, può pensare di intervenire in misura significativa basandosi sulla sua sola forza. Dovremmo cooperare, ed in parte le grandi istituzioni mondiali si sono mosse in tale senso, ma la propensione alle chiusure corporative (in gruppi circoscritti di interesse e pressione) e nazional-sovraniste, non aiuta né, soprattutto, aiuterà in futuro. Tempo due anni e – ci venga permessa questa considerazione – avremo saltato a piè pari vent’anni di evoluzione umana e civile. La qual cosa, per alcuni, comporterà cospicui benefici; per molti altri, invece, soprattutto costi da pagare. Lo storico sa bene che gli eventi spartiacque presentano – sempre e comunque – una tale natura, tanto feroce quanto divisiva. Proprio per questo, sui libri di storia, sono poi ricordati come una linea di separazione tra un prima ed un oltre. Sia ben chiara una cosa: ossia, che coloro che li vivono nel momento stesso in cui si verificano, non sono pienamente consapevoli di esserne gli involontari protagonisti. Semmai, rifiutano un tale ruolo in quanto ne colgono le implicazioni e, come tali, le temono. Tali poiché li espropriano della loro capacità di gestire il proprio orizzonte. Destabilizzandone l’idea, tipica invece di una società industriale dove tutto era prevedibile, di una perenne calcolabilità. Non si teme ciò che ci cambia bensì quanto potrebbe espropriarci. Mutare, di per sé, è nella natura umana. Essere messi ai margini, invece, no. Poiché costituisce, per ognuno di noi, uno scacco totale, segnando il senso della propria non essenzialità. Non soffre il povero ma colui che, una volta povero e poi, invece, superata la soglia del bisogno, viene infine ricacciato indietro. Nulla è detto una volta per sempre ma, per cortesia, non nascondiamoci dietro le foglie di fico. Tali poiché fragile e flebile finzione. Il realismo non è mai cinismo ma consapevolezza che bisogna guardare le cose per come sono. Fatto che, ai più, risulta invece insopportabile. Anche per questo, in fondo, ciò che chiamiamo con il nome di “politica” si sta inabissando, dinanzi alla sua conclamata inettitudine e in essenzialità. Un bel rebus per ognuno di noi ma, anche e soprattutto, per le generazioni a venire.

Claudio Vercelli

(26 luglio 2020)