Migranti, la sofferenza riemergente

Immagini che giacevano da qualche parte dentro di noi, sepolte o rimosse dalla coscienza, complice forse il Coronavirus e lo sconvolgimento provocato dalla pandemia in corso. Immagini di fughe, di naufraghi, di sofferenza. Tornano con il loro carico di drammaticità e di angoscia, portate dai nuovi continui sbarchi che la bella stagione e il mare calmo hanno ricominciato a produrre. Presi dalle nostre crescenti e ancora vive paure, le avevamo cancellate; ma dimenticare è colpevole, e puntualmente la miseria e l’assenza di futuro si riaffacciano a chiedere il conto a un Occidente indebolito, spaventato e anche improvvido.
La violenza è compagna abituale della maggior parte di queste donne e di questi uomini, in fuga da conflitti in corso nelle loro terre d’origine (Sudan e altre regioni africane, Siria e altre zone mediorientali) o da insormontabili difficoltà economiche, giunti fortunosamente (e certo non tutti) sulla costa nordafricana e particolarmente in Libia per compiere finalmente in qualche modo il grande balzo verso l’Europa, ma spesso rinchiusi in campi profughi che si rivelano veri e propri campi di prigionia e luoghi di tortura, da molti mesi poi ostaggi inconsapevoli di una guerra civile che ha generato il caos in istituzioni già fatiscenti e si è trasformata in conflitto diplomatico internazionale tra potenze sovraniste (la Russia di Putin e la Turchia di Erdogan). Presentato pochi giorni fa nel palinsesto di “In Onda” sulla Sette, un coinvolgente reportage di Francesca Mannocchi descriveva dal vivo attraverso il racconto diretto dei profughi la precarietà continua, l’illegalità palese, il sopruso indiscriminato che accompagna l’esistenza quotidiana di migliaia di persone che cercano solo salvezza e una vita degna di essere vissuta (“Questa non è degna di essere chiamata vita”, affermava indignato uno degli intervistati). Pericolo e violenza sono anche ciò che i fuggiaschi trovano nell’odissea in mare aperto, sui barconi a bordo dei quali accettano la sfida in cui confidano per la salvezza: insieme al rischio concreto del naufragio e dell’annegamento, quello dell’abbandono e del maltrattamento da parte dei mercanti di vite umane che li traghettano. O, ultimamente, persino la possibilità di venire bersagliati dalla guardia costiera libica, ahimè istruita e finanziata – in base a un preciso accordo – dal nostro Paese. Tre profughi, come si ricorderà, sono stati recentemente uccisi in questo modo, provocando imbarazzo nel governo italiano e mettendo in crisi il nostro senso di responsabilità. La violenza che ovunque tallona questi fuggiaschi per fortuna si attenua in Italia, dove strutture di emergenza (certo fisiologicamente inadeguate e insufficienti) attendono le persone tratte in salvo vicino alle nostre coste. Talvolta, però, anche entro questi centri di prima essenziale accoglienza si verificano episodi di intolleranza, o tentativi di fuga che generano inquietudine e possono produrre disagio o animosità nei due sensi. In Italia, soprattutto e di nuovo, la ripresa degli sbarchi di migranti sta causando un pericoloso caos organizzativo, nonché una crescita di panico e di rigetto delle amministrazioni locali di fronte alla prospettiva di ulteriori ondate migratorie da ospitare e sostenere.
Intendiamoci, l’impreparazione italiana di fronte a questa rinnovata urgenza immigrazione è in parte comprensibile, collocandosi a ridosso di un’emergenza globale come quella non conclusa del Covid-19 che da noi ha conosciuto fasi tragiche. Di fatto però l’incapacità di far fronte al problema è innegabile e le responsabilità della politica sono evidenti. Prima fra tutte quella di non aver saputo, negli ormai diversi mesi del governo giallorosso, superare il Decreto Sicurezza firmato da Salvini quale Ministro degli Interni del precedente esecutivo, che è uno strumento utile solo a sprangare ogni ingresso e a negare ogni aiuto alle migliaia di profughi che rischiano la vita, e di non aver avuto la coerenza di sostituirlo con un documento più congruo nell’assicurare assieme agli altri Stati europei assistenza e accoglienza nei limiti del possibile. Eppure il famigerato Decreto Salvini era fino a qualche mese fa uno dei cavalli di battaglia (sfruttato evidentemente solo per utilitarismo partitico) contro il capo della Lega e il suo muro sovranistico.
È vero che il personaggio – ai tempi ancora recenti dei salvataggi da parte della nave Gregoretti, della Ocean Viking, della Open Arms – negando ogni possibilità di sbarco cercava visibilità politica e non perseguiva in alcun modo il bene dell’Italia. Violava anzi il diritto internazionale e non rispettava i diritti umani. Correttamente dunque il Senato ha concesso l’autorizzazione a procedere per via legale nei sui confronti. Ma né il detestabile comportamento di Salvini, né la disponibilità a indagare nei suoi confronti possono divenire un alibi per il governo attuale di fronte alla sua palese incapacità di dotarsi di uno strumento legislativo adeguato e di affrontare con umanità, apertura e saggezza politico-amministrativa il grave problema (che sta trasformandosi in nuova emergenza) dell’immigrazione. Così come è chiaro che una risposta illuminata alla riemergente questione, che riguarda masse di esseri umani in cerca di salvezza sull’intero continente, deve venire dall’intera Unione Europea, per quanto in questa fase essa sia impelagata nelle pesantissime conseguenze di una pandemia che le nuove ondate di profughi rischiano oltretutto di aggravare.
È certo difficile conciliare politica ed etica, anzi calibrare le scelte politiche su linee etiche accettabili. Credo però che la terribile sofferenza interna causata dal Coronavirus non debba oscurare la comprensione e l’intervento nei confronti della sofferenza che giunge dall’esterno, da lontano. Al contrario, la solidarietà e l’aiuto produttivo dovrebbero consapevolmente aumentare durante le fasi di difficoltà e dolore condivisi.

David Sorani