La Libia ebraica tra storia e memoria
Il volume Libia ebraica. Memoria e identità. Testi e immagini, uscito nel 2018 in inglese per la Syracuse University Press e ora riproposto in edizione italiana da Salomone Belforte, si colloca nel contesto delle celebrazioni del cinquantenario dell’espulsione degli ebrei dalla Libia, nel 1967, e del loro arrivo sia in Israele che in Italia, le mete preferite degli esiliati. Curato da Jacques Roumani, mancato quando ancora il libro stava uscendo negli Stati Uniti, da sua moglie Judith e da David Meghnagi, il volume appare nell’edizione italiana arricchito rispetto all’edizione inglese del saggio di Liliana Picciotto sulla deportazione degli ebrei del Mediterraneo dall’Italia a Bergen Belsen. Anche il saggio di Hervey Goldberg sugli ebrei libici durante la seconda guerra mondiale e quello di David Meghnagi su storia e memoria appaiono qui in una veste rinnovata e più ricca. Il volume, del quale su Pagine Ebraiche ha già scritto Valentino Baldacci, ha al suo centro il rapporto tra storia e memoria nel percorso secolare degli ebrei in Libia. Un percorso che si snoda in realtà soprattutto tra antropologia e memoria, data anche la qualità dei suoi autori, nessuno dei quali è uno storico in senso stretto tranne Liliana Picciotto e, con un taglio di genere, Rachel Simon. Ma questo rende il percorso del libro ancora più coinvolgente anche se lascia aperte numerose domande e curiosità, soprattutto sulla storia degli ebrei libici nei primi secoli, trattata soltanto da Shimon Applebaum, studioso dell’età romana, in un bel saggio sulle rivolte antiromane in Cirenaica nel II secolo e. v. e da una breve nota di Maurice Roumani sul periodo islamico e ottomano. Ma al cuore del volume sono gli eventi del Novecento, della guerra ma ancor prima del fascismo e delle leggi del 1938, e poi delle violenze e dei pogrom del dopoguerra, fino al 1967. Di quei momenti in particolare i saggi del volume cercano di ricostruire non solo i fatti, la storia evenemenziale, ma i sapori, i suoni, i colori, la lingua e i sapori. Il senso della vita, insomma, il sapore della tradizione, quel senso della continuità con il passato che viene a patti con la modernità, e con essa a volte confligge. Così, nella sezione sulle donne, il conflitto tra tradizione e modernità emerge con maggiore forza che altrove. Nel saggio di Rachel Simon, le donne ebree libiche appaiono, nel periodo tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi trent’anni del Novecento, molto lontane dalla modernità: “Tradizionalmente scrive le ragazze non imparavano a leggere e parlavano esclusivamente il giudeo-arabo”. Una condizione che comincia a mutare, e anche lentamente, solo a partire dagli anni Trenta del Novecento. Una situazione, questa che nel suo saggio sulla condizione femminile nel secondo Novecento, Gheula Canarutto Nemni attribuisce non all’influsso interno ebraico ma alla società araba circostante. Una conclusione sulla quale mi si permetta di dissentire, almeno nella forma radicale in cui viene espressa. Il saggio, dedicato alle trasformazioni delle donne ebree nel passaggio in Italia o in Israele, di Judith Roumani, ci offre infatti un quadro molto più sfumato e complesso di queste trasformazioni. Affascinante la sezione dedicata al cibo, quella sul multilinguismo e quella di storia orale, con interviste che rendono il quadro assai più vivo, anche se in alcuni momenti forse un po’ troppo nostalgico della tradizione. Ed ugualmente molto interessante l’ampio apparato fotografico che arricchisce il volume.
Per me, storica e attenta al problema della memoria, la grande domanda che emerge, e che è particolarmente stimolante non solo per la storia degli ebrei in Libia, ma in generale per quella di tutti i percorsi memoriali, è quella del rapporto tra le diverse memorie. Un rapporto in cui le memorie si sommano o si elidono a vicenda? In questo caso, quella specifica degli ebrei libici, e forse ancor più degli ebrei dei paesi arabi, sottoposti a persecuzioni, violenze, esili nel dopoguerra, e quella, spartiacque della storia tutta e in particolare di quella europea oltre che di quella di Israele, della Shoah. Quale di queste memorie è prioritaria, quale prevale? Certo, la memoria dei pogrom è legata alle storie individuali, in molti casi è memoria di vicende viste e sofferte di persona o nei propri cari, di luoghi amati e perduti, di esili amari vissuti sulla propria pelle. Ma i saggi contenuti in questo volume ci ricordano che le violenze antisemite non sono solo quelle del dopoguerra, degli arabi sugli ebrei. Sono anche quelle della Shoah, per molto tempo vicinissima a colpire anche gli ebrei del Nordafrica, se solo ad El Alamein avessero vinto i nazisti con gli italiani loro alleati. Il saggio di Liliana Picciotto ci ricorda qui le deportazioni degli ebrei del Nordafrica a Bergen Belsen, quello di Goldberg sulla Seconda guerra mondiale il peso delle leggi razziste del 1938 sulla vita e il destino degli ebrei libici. Le due vicende, quella del nazifascismo e quella del conflitto con gli arabi, si sommano, non si elidono. I pogrom che si susseguono in Libia fra il 1945 e il 1967 sono preceduti da campi di concentramento fascisti e leggi di discriminazione e il volume ben lo chiarisce nelle scelte dei saggi e dei temi. Un contributo importante anche a sfatare un mito tuttora radicato nonostante le famose pagine di Primo Levi sulla famiglia Gattegno, quella che la Shoah non abbia in alcun modo toccato le comunità sefardite del Nord Africa.
Il contributo di David Meghnagi, che chiude il volume, ha forse anche la funzione di compenetrare e conciliare queste due memorie, di una delle quali, quella della Shoah, l’autore è ben cosciente perché vi ha dedicato tanti studi e ricerche. L’altra invece è soffusa di memorie personali, di ricordi di amici, paure, violenze, esili. Un tema su cui Meghnagi ha spesso scritto ma che qui esprime con una forza sia emotiva che razionale particolare, consentendogli, e consentendoci, di appianare i conflitti memoriali, di unificarli e superarli. Di conciliare, quindi, storia e memoria.
Anna Foa, storica, Pagine Ebraiche Agosto 2020