Rav Steinsaltz e la lezione sullo Shabbat “Ecco perché lo rispettiamo”
Uno dei principi fondamentali dell’ebraismo è costituito dallo Shabbat. A partire dal libro di Bereshith (Genesi) con la descrizione della Creazione e del relativo riposo nel settimo giorno, fino ai Dieci Comandamenti, tra i quali è espressamente menzionata la mitzvà di astenersi da qualsiasi attività nel giorno di Shabbat, il concetto viene sottolineato in tutta la sua importanza. La mitzvà fondamentale dello Shabbat è costituita dal principio che «il settimo giorno è giornata di cessazione dal lavoro dedicata al Signore tuo Dio e non compirai alcun lavoro» (Es. 20: 10), stabilendo un divieto che viene più volte ripetuto nella Torà e così pure nelle parole di ammonimento dei Profeti. Questo concetto basilare dello Shabbath quale giorno di riposo è in apparenza assai semplice, tuttavia, quando si viene ad applicarlo nella vita quotidiana, nasce una lunga serie di problematiche a partire dalla definizione stessa di melakhà (lavoro proibito di Shabbat) (TB, Shabbat 73a). Da un lato potrebbe essere considerato melakhà un qualsiasi atto che richiedesse una fatica eccessiva, o una qualsivoglia azione per la quale si ricevesse un pagamento, o molte altre attività ancora, e ognuna di queste definizioni porterebbe a individuare una diversa configurazione del divieto, e così un diverso modo di osservare lo Shabbat. La tradizione orale, basata su un’analisi approfondita delle fonti, giunge a un’altra conclusione riguardo all’essenza dello Shabbat, molto legata al concetto di «imitazione di Dio» accennato in molti passi della Torah stessa. Il lavoro vietato di Shabbat non è legato al concetto di fatica fisica o alla ricompensa in denaro ma, sostanzialmente, al compiere atti di creazione volontaria nel mondo della natura.
Così come il Signore si riposò di Shabbat dalla sua attività, quella della Creazione del mondo, ugualmente agli ebrei è richiesto di non compiere, di Shabbat, attività creative nel mondo.
Questa definizione generale non la si ritrova così formulata nel Talmud, in quanto il Talmud rifugge dalle definizioni teoriche e astratte. Per di più non esiste un’unica definizione in grado di gettare luce su tutti i numerosi e complessi aspetti della questione, che possono emergere nel corso del tempo. Il Talmud presenta invece un modello di «lavoro proibito» di Shabbat formulato espressamente nella Torah, ossia quello relativo alla costruzione del tabernacolo nel deserto con tutte le attività ad essa collegate. La maggior parte delle discussioni halakhiche riportate nel Talmud riguardo alle attività vietate e permesse di Shabbath rappresenta un’applicazione e un ampliamento di questo modello, allo scopo di trarne conclusioni pratiche.
Innanzitutto fu necessario analizzare i tipi di lavoro che furono messi in atto per costruire il tabernacolo. L’analisi venne poi riassunta in un elenco di «trentanove avòth melakhà» (TB, Shabbat 73a), ossia trentanove generi di attività fondamentali, che senza dubbio vennero allora compiute e che costituiscono degli «avòth» (padri), ossia prototipi di quanto è vietato compiere di Shabbat. La mishnà in cui compare questa lista raggruppa i generi di attività in base alloro scopo, elencandole a partire da quelle legate alla preparazione e alla coltivazione degli ingredienti (per le tinture), fino alla lavorazione delle pelli, dei metalli e dei tessuti legati alla costruzione del tabernacolo.
Trentanove sono solo gli «avòth» (TB, Shabbat 73a), ossia le categorie fondamentali, ma ciascuna di esse ha delle toledòth (discendenze), cioè azioni simili per la loro essenza, anche se non identiche alle prime in tutti i loro aspetti particolari. II carattere peculiare della letteratura talmudica emerge palesemente proprio dalle modalità con le quali vengono interconnessi argomenti tra loro diversi e distanti. Per esempio, la mungitura è considerata una toledà (discendenza) dell’av melakhà (protitipo o categoria) della «trebbiatura» (TB, Shabbat 73a). In apparenza la relazione tra le due azioni sfugge e sembra priva di significato, ma essa diviene comprensibile analizzando la struttura logica sottostante: la trebbiatura è un’operazione volta a estrarre il contenuto edibile da un oggetto che, di per sé, non lo è affatto, e la mungitura esplica una funzione assolutamente analoga, anche se riferita a un oggetto del tutto diverso.
La discussione di questi aspetti «strutturali» è solo una delle facce del problema, ma ne esiste un’altra, di natura quantitativa. Affermare che una certa attività è vietata di Shabbat rimane un’espressione teorica, che indica ciò da cui ci si deve astenere. Ma è necessario stabilire quando un certo atto può essere considerato irrilevante dal punto di vista pratico, di modo che, seppure ci fosse stata una cattiva intenzione nel compierlo, non si è tuttavia giunti a concretizzarla, e per questo l’atto non può essere considerato un «lavoro proibito» nel pieno senso del termine. Per esempio, la scrittura è vietata di Shabbat, ma bisogna chiedersi quale sia il limite al di sotto del quale non si tratta ancora di vera «scrittura». Qui, ad esempio, i chakhamìm stabilirono che già due lettere rappresentano un’unità dotata di significato, e per questo è proibita, ma scrivere una sola lettera non venne considerato un lavoro compiuto. La definizione contiene anche aspetti qualitativi: è chiaro, ad esempio, che, in linea di principio, rovinare, danneggiare e distruggere non sono azioni considerate «lavoro», a meno che non facciano parte di un progetto che ha lo scopo di ricostruire o riordinare. Distruggere una costruzione non è considerato un «lavoro», a meno che ciò non serva all’edificazione di qualcos’altro, servendosi dei materiali o costruendo un altro edificio al posto di quello distrutto.
Un ulteriore aspetto è quello della kavvanà (intenzione, volontà) con la quale si compie un’azione: secondo il Talmud è vietato dalla Torah compiere di Shabbat un «lavoro intenzionale», di conseguenza quel lavoro su cui non si è riflettuto non è considerato un’attività creativa. L’uomo che compie un’azione distrattamente, e si rende conto che senza volere ha compiuto un atto creativo, non è considerato alla stregua di chi ha compiuto un lavoro, in quanto manca l’elemento dell’intenzionalità.
Non si tratta di una questione facile da definirsi, in quanto rimarrà sempre l’interrogativo su quale sia l’essenza di quell’intenzione necessaria perché un certo atto venga considerato come un lavoro.
Rav Adin Steinsaltz
Da Cos’è il Talmud, ed. Giuntina
Testo parte del Dossier Talmud – Pagine Ebraiche Gennaio 2018