Divulgare la storia

Prosegue il lavoro di divulgazione storica di Claudio Vercelli, che si affianca a quello di ricerca, mantenendo nell’uno e nell’altro campo lo stesso rigore metodologico. Gli ultimi due agili volumi, usciti a breve distanza l’uno dall’altro, riguardano due rilevanti nodi della storia contemporanea italiana: sono infatti dedicati rispettivamente a El Alamein e a Frontiere contese a Nordest. L’Alto Adriatico, le foibe e l’esodo giuliano-dalmata. Entrambi i volumi sono pubblicati, come i precedenti (Israele settant’anni. Nascita di una nazione; Francamente razzisti. Le leggi razziali in Italia; Neofascismi; L’anno fatale 1919; da Piazza Sansepolcro a Fiume) dalle Edizioni del Capricorno, Torino.
Entrambi gli argomenti oggetto delle pubblicazioni sono stati a lungo – praticamente a partire dalla fine della II guerra mondiale – due cavalli di battaglia della propaganda della destra nazionalista e neofascista e hanno costituito due degli strumenti più efficaci per la conquista di un certo consenso in strati non marginali della società italiana. Perciò il lavoro di Vercelli è tanto più meritorio perché egli non si è ritratto di fronte a due temi di fronte ai quali la storiografia italiana ha preferito a lungo non impegnarsi troppo, lasciando quindi il campo scoperto a incursioni di tipo meramente propagandistico.
Sulla battaglia di El Alamein una certa pubblicistica nazionalistica italiana ha insistito a lungo battendo il tasto, a essa molto caro, dello sfortunato valore militare italiano, sopraffatto dalla superiorità in mezzi e uomini del nemico. Vercelli, che compie un’analisi accuratissima delle varie fasi della battaglia, non si sottrae a questa impostazione ma la completa e la arricchisce con un’analisi di carattere geo-politico senza la quale il senso stesso della battaglia andrebbe perduto. Un’analisi che mette in evidenza la concomitanza tra la battaglia combattuta in Egitto, quasi alle porte di Alessandria, e quella che molte centinaia di chilometri più a nord fu combattuta a Stalingrado. Come è stato messo in evidenza in altre occasioni, se l’esito delle due battaglie fosse stato diverso la tenaglia germanica si sarebbe stretta sul Medio Oriente mettendo in discussione l’egemonia britannica su tutta la regione e in particolare il controllo delle aree petrolifere, rendendo assai incerto l’esito del conflitto nel momento in cui l’intervento americano era appena gli inizi.
Un aspetto che raramente viene preso in considerazione e che invece Vercelli evidenzia adeguatamente è quello del destino dell’yishuv ebraico nella Palestina mandataria se l’esito della battaglia fosse stato favorevole alle armi italo-tedesche. Una pagina quasi sempre trascurata dell’intervento italiano in guerra è quello dei bombardamenti condotti dall’aviazione contro le città ebraiche della Palestina mandataria, in particolare contro Haifa e Tel Aviv. Se nel primo caso il bombardamento poteva avere delle motivazioni di carattere militare, quello contro Tel Aviv, condotto subito dopo l’ingresso dell’Italia in guerra, aveva invece esclusivamente motivazioni di carattere politico e costituì una sorta di avvertimento alla popolazione ebraica di quale sarebbe stata la sua sorte se l’esito del conflitto militare avesse portato le truppe dell’Asse a conquistare quel territorio.
Se la riflessione sul significato della battaglia di El Alamein appartiene, dal punto di vista dei suoi riflessi politici, a un tempo ormai lontano, molto più attuale è quella sul conflitto etnico-ideologico che interessò, e per certi aspetti ancor oggi interessa, l’area di frontiera tra l’Italia e quella che era la Jugoslavia e che oggi è costituita dai due Stati di Croazia e Slovenia. Il tema delle foibe – da argomento privilegiato della propaganda neofascista – è stato in tempi recenti recepito, anche se tardivamente, dall’intera comunità nazionale e dai suoi rappresentanti istituzionali entrando a far parte ufficialmente, con il Giorno del Ricordo, del calendario celebrativo nazionale. Anche i ripetuti tentativi di sottolineare l’avvenuta riconciliazione con la Croazia e la Slovenia in realtà mettono in evidenza come ancora quella ferita non si sia del tutto rimarginata.
E’ perciò molto importante che si mettano in evidenza le radici del conflitto e le responsabilità che ci sono state da parte italiana e da parte slava nell’alimentare uno scontro che ha avuto conseguenze tragiche per entrambe le comunità nazionali, anche se in tempi diversi. Perché quello che emerge con grande chiarezza dalla ricostruzione di Vercelli è che si è trattato di uno scontro tra due diversi nazionalismi, entrambi esasperati fino al limite della rottura, che alla fine hanno prodotto tragedie che solo lentamente possono essere superate.
Il nodo fondamentale fu costituito dalla composizione etnica dei territori che vanno dall’Isonzo fino a comprendere, a est, tutta l’Istria: una composizione etnica che vedeva, nel momento in cui quei territori, alla fine della I guerra mondiale, passarono dall’Impero austriaco all’Italia, una predominanza della componente italiana nelle città e di quella slava (slovena o croata) nelle campagne. Il rapporto e l’integrazione tra città e campagna erano economicamente necessaria ma questo non allentava ma anzi acuiva le tensioni etniche perché gli italiani erano visti dalle popolazioni rurali slave non solo come gli appartenenti ad una etnia diversa ma come “i padroni”, facendo sì che al conflitto nazionale si mescolasse quello di classe.
Il fascismo, salito al potere pochi anni dopo che quelle terre erano passate sotto la sovranità italiana, esasperò in ogni modo il conflitto agendo in maniera ciecamente nazionalistica, cercando di sradicare con la violenza la presenza slovena e croata, giungendo a proibire anche l’uso quotidiano delle lingue materne. E’ da ricordare che una simile politica di snazionalizzazione era stata attuata tra ‘800 e ‘900 anche in altre parti d’Europa. Si pensi alla contesa sull’Alsazia e la Lorena, dove sia la Germania che la Francia tentarono, in momenti diversi, di eliminare la presenza della cultura rivale; o la politica di snazionalizzazione condotta dalla stessa Francia in Corsica o in Bretagna. Ma mentre la capacità di egemonia della Francia si è rivelata nel lungo periodo capace di imporre la propria cultura e la propria lingua a quelle regioni, così non è stato per l’Italia fascista, che non si mosse sul piano dell’egemonia culturale ma su quello della violenza pura e semplice.
Furono create perciò le condizioni perché, nel momento del crollo dell’Italia durante la II guerra mondiale, i rappresentanti politici delle etnie slovena e croata potessero rovesciare contro gli italiani – considerati in blocco tutti fascisti, un’identificazione che il fascismo stesso aveva favorito – l’odio accumulato da parte delle popolazioni slave. Il nazionalismo sloveno e croato non fu meno violento e distruttivo di quello fascista, e, poiché fu guidato dalla Lega dei comunisti diretta da Tito, assunse facilmente quel carattere di lotta di classe che era sempre stato sotteso al conflitto etnico. Oggi – a distanza di più di settanta anni dalla definitiva fissazione delle frontiere, si può valutare quanto dolore l’esasperazione nazionalistica abbia provocato in entrambe le etnie.

Valentino Baldacci