Ricordando Tullio

Tullio Levi z.l. ci ha lasciati. L’ebraismo, non solo torinese, è in lutto. Altri, ben meglio di me, possono parlarne con immediata cognizione di causa: famigliari, amici di antichissima data, conoscenti non occasionali e così via. Alle cose che vorrei dire da subito di lui – e di quanti come lui, poiché era parte di una generazione che, nata a ridosso della catastrofe dell’ebraismo europeo e ad essa era sopravvissuta, grazie al contributo di molte persone, in Italia come in Europa, non di “buon cuore” bensì di buon senso (una virtù che spesso difetta ad oggi) – devo invece dare un po’ di tempo e di respiro affinché assumano il senso non di un giudizio affrettato bensì di un ricordo ben sedimentato. Lo rammento, peraltro, da tempi immemorabili. Nel senso che io ero un ragazzino e lui, invece, già un’augusta colonna portante dell’ebraismo torinese. Per essere chiari, quello che parte da Carlo Alberto (le «regie patenti» nel 1848) per arrivare ai giorni nostri, nel nome senz’altro delle tradizioni ma anche e soprattutto dell’«emancipazione». Qualcosa che oggi, a certuni (invero molti, non certo nel solo ambito ebraico), non è cosa molto chiara. Lo posso definire con una serie di aggettivi: sobrio, severo, determinato, augusto e quant’altro. Laico, soprattutto. Una condizione, uno stile, una logica interiore che sembra essersi annebbiata nei tanti. Al pari del continuare ad essere dignitoso. Altra qualità che, nell’età che viviamo, non è invece sempre condivisa. Bando ai panegirici, alle apologie post mortem e cos’altro. Qui il cuore piange. Nulla di meno, nulla di più. Verrà poi il tempo di riflessioni maggiormente argomentate. Aggiungo a ciò, come uomo, qualcosa forse di sorprendente per alcuni lettori. Una delle ultime volte che lo vidi in pubblico, prima che la malattia se lo prendesse, gli dissi: «qual è il segreto della tua longeva pervicacia e della tua autorevole disposizione d’animo, che si manifesta in una asciuttezza di spirito inscritta algidamente nella carne del tuo corpo?». Poiché – mi sia concessa quella che non è una civetteria bensì una confessione a tutto tondo – per un uomo come me, che guarda le donne ed appartiene ad altra generazione da quella di Tullio z.l., la sua gradevolezza di espressione e di aspetto faceva tutt’uno con la cristallinità del suo pensiero. Spesso mi ha domandato e, in più di una occasione, so che abbiamo condiviso risposte diverse. Tuttavia, rimane la sua forza, la sua determinazione lieve ed non scalfibile, in una parola quella cosa che chiamiamo «memoria» e che non è solo ricordo ma soprattutto un cuore che continua a palpitare.

Claudio Vercelli

(16 agosto 2020)