Controvento
L’origine di un mito

È incredibile come gli uomini siano ricorsi a ogni tipo di intimidazione pur di dissuadere le donne dallo studio e dalle cultura. Una delle più esilaranti, presentata come verità scientifica – e le conseguenze sull’opinione pubblica sono state difficili da estirpare – è che la cultura rende le donne brutte. Un mito durato a lungo: quando era ragazzina e passavo tutto il tempo libero a leggere, mia madre mi redarguiva dicendo che sarei rimasta zitella. “Sei pallida, hai le occhiaie, diventerai gobba a furia di stare china sui libri, ti rovinerai gli occhi e dovrai portare gli occhiali. Agli uomini le donne con gli occhiali non piacciono, sembrano professoresse. E poi quale uomo vorrebbe mai sposare una donna intelligente?”.
Le sue parole mi sono tornate alla mente leggendo due ritagli di The Journal, l’importante quotidiano newyorchese di William Randolph Hearst, datati 22 e 29 marzo 1896 – ringrazio mia cognata Brooke Kroeger, insigne studiosa, scrittrice e professore di giornalismo alla New York University, dove ha diretto per anni il corso di Master, per avermeli segnalati. “How intellectual work destroys beauty”, è il titolo di una inchiesta in due puntate volta a dimostrare “scientificamente” che l’attività intellettuale distrugge il gentil sesso. L’anonimo giornalista intervista uno dei luminari della scienza dell’epoca, il prof. James Chrichton Browne, presidente della London Medical School, che sciorina tutte le conseguenze nefaste dello studio, partendo dall’assunto che la bellezza femminile è un bene per gli uomini “unico ristoro in un mondo sordido e brutto” e va quindi preservata a ogni costo contro tutto ciò che potrebbe minacciarla. E qui inizia un lungo elenco di danni a livello fisico (rughe, occhiaie, incarnato, perdita di denti e capelli), medico (tubercolosi, anemia, inappetenza, disordini del sistema immunitario, difficoltà di riproduzione) ma soprattutto mentale, portando prove “oneste, serie e scientifiche” spiega il giornalista. Si parte dall’idea, attribuita al Broca, sì, proprio lo scienziato che scoprì l’area del linguaggio, che il cranio femminile è più piatto (come peraltro i piedi – per questo le donne porterebbero i tacchi…), e di conseguenza il loro cervello è più piccolo, ha un minore afflusso di sangue nelle aree della cognizione, della psicomotricità e della forze di volontà e un maggiore afflusso – ma di un sangue di peggior qualità – nelle zone delle emozioni e dei sentimenti. È evidente che su cervelli così menomati lo studio costituisce uno stress intollerabile, che può portare a “crisi di nervi, demenza, epilessia, isteria, stati comatosi, bipolarismo, impulsi morbosi e perversioni morali”. Danni irreversibili, ai quali nemmeno una tempestiva interruzione degli studi potrebbe ovviare, perché una volta che la degenerazione psicofisica è iniziata diventa inarrestabile, e che portano le poverine al sonnambulismo , alla depressione, al suicidio. E a una bruttezza inquietante per il genere maschile che della venustà e grazia femminile ha necessità assoluta.
Per convincere gli scettici, se mai ve ne fossero, l’autore correda l’articolo con i ritratti di quattro attrici famose all’epoca, l’italiana Eleonora Duse, la francese Sarah Bernhardt, l’angloamericana Fanny Davenport e l’americana Ada Rehan. Grazie a un immaginifico Photoshop antelitteram, le artiste sono mostrate nelle loro fattezze attuali, e come sarebbero state se invece che dedicarsi all’arte se ne fossero state a casa ad accudire a mariti e figli o a godersi, nel caso della Bernhardt, che nemmeno un moralista vittoriano poteva immaginare madre di famiglia, sibaritici lussi orientali.
E qui mi torna nuovamente in mente mia madre che rifiutava di acquistarmi gli occhiali (come da sua previsione era diventata miope) sostenendo che “per una donna è più importante essere vista che vedere”.

Viviana Kasam

(17 agosto 2020)