Lo speciale su Pagine Ebraiche di agosto
Hannah Arendt e il suo occhio segreto
È stata uno dei pensatori politici più importanti del Novecento ed è un’icona del suo tempo. I giudizi fulminanti di Hannah Arendt hanno forgiato un’epoca, le sue riflessioni sul totalitarismo e il razzismo restano ineludibili e la “banalità del male” è un concetto ormai entrato nel linguaggio corrente. Di lei si conoscono la fuga drammatica negli anni della persecuzione nazista, la complicata vita sentimentale, le amicizie con gli intellettuali più prestigiosi del tempo. Pochi però avevano avuto modo finora di apprezzare il suo talento di fotografa. Armata di una minuscola Minox – la “macchina fotografica delle spie” – Arendt per decenni ferma sulla pellicola le immagini di amici e conoscenti con risultati spesso sorprendenti. Sono volti più o meno noti. Frammenti preziosi di vita – attimi felici, ritratti rubati, scatti estemporanei. Un album fotografico come tanti, se non fosse che i soggetti ritratti portano i nomi di Martin Heidegger, Karl Jaspers o Mary Mc Carthy e l’autrice ha un occhio invidiabile.
A portare alla luce questo risvolto per molti inaspettato è la mostra Hannah Arendt and the Twentieth Century al Deutsches Historisches Museum di Berlino. Curata dalla filosofa Monika Boll, l’esposizione ricostruisce l’esperienza e il pensiero di Arendt come intellettuale pubblica attraverso documenti, immagini e girati d’epoca fra cui la citatissima intervista a Günter Gaus del 1964 e incontri più recenti come quelli con la filosofa ungherese Agnes Heller o il politico Daniel Cohn Bendit.
In sedici capitoli prende così forma una riflessione che investe i temi più pressanti del suo tempo – l’eredità coloniale, l’orrore senza precedenti del nazismo, il razzismo, la società americana, il femminismo, il sionismo. Sono però le fotografie scattate da Arendt, di cui in queste pagine proponiamo una selezione, a ricomporre sotto i nostri occhi il mondo elusivo dei suoi affetti.
La filosofa acquista la sua “spy camera” Minox a Monaco nel 1961 con l’amica Anne Weil. È il genere di macchina che allora va per la maggiore, un vero gioiello meccanico. Pesa poco più di un etto e sta nel palmo di una mano. Lunga 80 millimetri e larga 27, ha un sistema di apertura telescopico. Quand’è chiusa nasconde sia l’obiettivo sia il mirino. Utilizza una pellicola da 16 millimetri ma garantisce ottimi risultati anche negli ingrandimenti. È il genere di apparecchio che s’infila in tasca o in borsetta e non dà nell’occhio.
L’inventore, l’autodidatta lettone Walter Zapp, la sognava alla portata di tutti.
Una macchina facile da usare e poco costosa. Fin dagli esordi, gli alti costi di produzione ne fanno però un prodotto di nicchia. La Minox attrae gli ambienti dell’intelligence negli Stati Uniti, in Germania, Gran Bretagna e presto diventa uno dei gadget più ambiti dai gerarchi nazisti. Dopo la guerra, quando da Riga la produzione si sposta in Germania, la fotocamera è ridisegnata. La nuova macchina somiglia all’originale, ma il telaio di plastica è rivestito da un guscio di alluminio. È un’innovazione che riduce il peso e in parte il costo ma resta un oggetto di lusso e da spie.
È facile immaginare Hannah Arendt mentre mentre ritrae gli amici più cari, gli amori e le amiche con la sua lucente Minox. Ci si specchia senza sforzo in quel gesto così contemporaneo, replicato ogni giorno milioni di volte da milioni di smartphone in tutto il mondo. E per un attimo l’icona si si svela nella sua affettuosa umanità.
Daniela Gross
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(17 agosto 2020)