La difficile preghiera
dell’uomo contemporaneo

È impossibile ignorare il forte monito lanciato da Rav Somekh all’ebraismo italiano (“Una lezione dalla pandemia”, in Pagine Ebraiche luglio 2020). Come una cartina di tornasole del nostro modo di essere ebrei, la pandemia ha evidenziato virtù e mancanze del nostro atteggiamento, in questo periodo e non solo. Se la solidarietà interna nei confronti di chi è in difficoltà e la tensione verso la conoscenza dell’ebraismo si sono dimostrate solide, anzi crescenti attraverso la nascita di iniziative comunitarie e individuali di assistenza e l’organizzazione di numerosissime sessioni di studio on line, altrettanto non si può dire per la pratica della Tefillah, forzatamente sospesa nella sua dimensione pubblica per vari mesi e ora ripresa con partecipazione molto ridotta dopo l’entusiasmo iniziale della riapertura. La conseguenza di questa carenza di Avodah, particolarmente evidente nelle “famiglie ebraiche italiane che sembrano aver gettato il loro retaggio alle ortiche”, è – secondo Rav Somekh – “un’ecatombe spirituale di immane significato morale”: in sostanza, la perdita di un patrimonio e di una identità.
Colgo la pesantezza delle sue parole, comprendo la gravità della debolezza di quello che secondo i nostri maestri è uno dei tre capisaldi del mondo (Torah, Ghemilut Chassadim e, appunto, Avodah) e partendo da qui provo a pormi qualche domanda. Perché oggi il rapporto diretto con Dio è così fragile? Quale difficoltà si innesca tra l’uomo contemporaneo e la dimensione della preghiera? Nello specifico, cosa allontana l’ebreo dei nostri giorni dalla Tefillah?
Un possibile orientamento di risposta viene dal contrasto tra il razionalismo dell’uomo moderno e la presunta irrazionalità della preghiera e in genere del rapporto tra immanente e trascendente; come se la preghiera consistesse nel paradossale tentativo di razionalizzare l’irrazionale. Certo, il difficile confronto fra la ragione meccanicistica della scienza e il piano metafisico della religione gioca un ruolo non indifferente nel delimitare alla radice tanto la frequentazione dei luoghi di culto quanto la dimensione intima del pregare. Ma il rapporto col divino si è comunque affermato come elemento fondante anche nell’età moderna, caratterizzata dallo sviluppo scientifico e dall’affermarsi di una visione meccanicistica del mondo.
E chi l’ha detto poi che la dimensione del pregare sia di per sé irrazionale? Non può forse esistere un rapporto razionale tra uomo e Dio? La tradizione ebraica appare senz’altro favorevole a questa prospettiva. Basta pensare al Rambam, alla sua visione del Divino e del Suo agire sul mondo, del modo di porsi dell’ebreo nei confronti delle mitzwot, compresa quella della preghiera. Ma anche la propensione a un rapporto mistico con Dio viene razionalizzata dall’ebraismo: la visione cabbalistica possiede una sua razionalità, per quanto differente da quella comune e “scientifica”.
E allora, se nel fondo non esiste incompatibilità tra ragione e preghiera, come si spiega la diffusa idiosincrasia per la dimensione del colloquio col “piano superiore” e della supplica all’Onnipotente?
Forse è l’iper-scientismo dei nostri giorni, l’orizzonte super-tecnologico in cui siamo quasi forzatamente calati dal forsennato sviluppo che ci accompagna ad allontanare l’uomo dall’atteggiamento di sudditanza nei confronti del trascendente e di richiesta diretta verso quella direzione; anzi, lo stesso concetto di trascendenza appare probabilmente a molti incomprensibile e irrealistico al giorno d’oggi. In parte, il clima della rivoluzione informatica che stiamo vivendo porta a una sorta di rigetto del piano religioso. In parte, d’altronde, genera un atteggiamento opposto, spingendo alcuni a cercare un rifugio interiore e intangibile nella fede. A mettere ulteriormente in discussione la cesura creata dall’high-tech, l’ebraismo haredi – certo inscindibile dal mondo della preghiera – con contraddizione solo apparente spesso si rivela ipertecnologico, riuscendo a conciliare tradizione religiosa e progresso senza neppure porsi il problema di una loro presunta incompatibilità. A ben guardare, dunque, non è tanto il contrasto tra tecnica e spiritualità a tenerci sovente lontano dal rispetto della tradizione e dalla preghiera, quanto forse la nostra pretesa di “controllo” autonomo sul mondo, la difficoltà ad ammettere che qualcosa sfugge alla nostra programmazione e la conseguente riottosità a cercare una interlocuzione con una dimensione superiore.
Ma una risposta all’atteggiamento tiepido di molti correligionari (e in particolare di molti ebrei italiani) nei confronti della frequenza del Beth ha Kenesset può anche venire da un ordine di questioni completamente diverso. Talvolta l’incapacità di comprendere a fondo il significato delle tefillot per la scarsa conoscenza dell’ebraico o la difficoltà di affidare le proprie suppliche alla traduzione che in genere si trova sul siddur può creare una sorta di disagio interiore e generare un certo distacco. E’ un fatto che occorre una comprensione effettiva di ciò che si dice per dare pienezza a una preghiera. Come è un fatto che tutti (e mi metto in prima fila) dovremmo impegnarci di più per capire appieno il testo ebraico che andiamo pronunciando.
Di fronte all’attuale carenza di Tefillah (che è modo di porsi regolamentato ma spontaneo e perde di senso se non è volontariamente accettata) non colgo strade univoche da seguire. Un sentiero utile a recepire – e recuperare – la dimensione di spiritualità in cui l’ebraismo e la preghiera ebraica si inseriscono può forse essere la filosofia di Emmanuel Levinas, che vede nell’etica la metafisica per l’uomo. I principi dell’agire morale (la “Difficile libertà” del suo famoso trattato) rappresentano per lui la sola conoscenza pienamente possibile e dipendente dall’azione dell’uomo nei confronti dell’Altro; in questo quadro, il rapporto con l’ordine etico del mondo che si instaura attraverso il colloquio stabilito dalla preghiera riveste una funzione centrale, assumendo un significato pregnante capace di andare ben al di là della supplica volta all’esaudimento di una richiesta. La preghiera potrebbe allora nascere, come il pensiero, dallo “stupore del silenzio di Dio” davanti alle tragedie, dall’ascolto della parola dell’infinito di cui ci parla il filosofo. La tragedia della pandemia potrebbe davvero spingerci a ritrovare la voce della Tefillah.
David Sorani

(18 agosto 2020)