La pace con gli Emirati

Nei commenti che hanno fatto seguito alla decisione di normalizzare i rapporti tra lo Stato d’Israele e gli Emirati Arabi Uniti l’aggettivo “storico” per definire l’accordo è stato usato con un’abbondanza pari alla sua banalità. In fondo gli Emirati non sono il primo ma il terzo Paese arabo a riconoscere formalmente l’esistenza di Israele e a stabilire con esso normali rapporti diplomatici. Perché allora tanta enfasi? In realtà l’enfasi è pienamente giustificata perché questo accordo è profondamente diverso da quello raggiunto a suo tempo con Egitto e Giordania. È il primo atto compiuto sulla base di una libera e consapevole scelta politica, mentre gli altri due erano in qualche modo frutto di uno stato di necessità.
L’Egitto di Sadat dovette piegarsi a riconoscere Israele per poter ottenere la restituzione del Sinai, perso con la guerra dei Sei giorni del 1967 e non recuperato con quella del Kippur del 1973. Il recupero del Sinai fu per Sadat una condizione necessaria per mantenersi al potere, anche se non fu sufficiente, perché la pace con Israele gli costò la vita nell’attentato del 6 ottobre 1981 organizzato dai Fratelli musulmani. In realtà quella tra Israele ed Egitto è sempre rimasta una “pace fredda”, conclusa sulla base non di una libera e convinta scelta ma, appunto, di uno stato di necessità.
Un discorso analogo si può fare per la pace con la Giordania, conclusa il 25 luglio 1994. Essa fu il frutto degli accordi di Oslo, quando apparve possibile la conclusione del conflitto israelo-palestinese. Infatti la pace tra Israele e Giordania fece seguito all’atto unilaterale di rinuncia, da parte della Giordania, alla sovranità sulla Cisgiordania dove avrebbe dovuto nascere lo Stato di Palestina. La crisi del processo di pace in seguito al rifiuto di Arafat dell’accordo proposto da Bill Clinton nell’estate 2000 a Camp David ha portato anche a un raffreddamento dei rapporti tra Giordania e Israele, dovuto anche alla scomparsa di Re Hussein che di quell’accordo era stato un convinto sostenitore.
La pace tra Israele e Emirati sarà dunque, una volta formalizzata, il primo accordo tra lo Stato ebraico e uno Stato arabo raggiunto non in base a uno stato di necessità, ma per libera scelta politica. È questa la vera novità dell’accordo, tanto più se esso sarà seguito, come una serie di segnali sembrano annunciare, da altri accordi simili conclusi da Israele con altri Stati del Golfo, come Oman e Bahrein. Più difficile e più lontana nel tempo appare la normalizzazione dei rapporti con l’Arabia Saudita, per il particolare ruolo che questo Stato svolge nel mondo musulmano in quanto custode della Mecca. Un accordo del regno saudita con Israele potrebbe provocare nel mondo islamico reazioni ben diverse da quelle – assai poco significative – che ha prodotto la decisione degli Emirati. Giova ricordare infatti che, quando l’Egitto concluse la pace con Israele, una delle conseguenze fu l’espulsione dell’Egitto stesso dalla Lega araba. Oggi la richiesta di Abu Mazen di convocazione urgente del Consiglio della Lega araba con lo scopo di esprimere una condanna dell’accordo ha incontrato uno sprezzante rifiuto.
C’è anche da rilevare che finora si è messa in evidenza soprattutto la reazione iraniana all’accordo mentre uno spazio minore è stato dato a quella della Turchia, che è stata particolarmente violenta. In realtà, date le difficoltà interne dell’Iran, al di là delle dichiarazioni più o meno roboanti, la guida dell’estremismo islamico sembra sempre più l’obiettivo di Erdogan, capo di un Paese, va ricordato, che fa ancora parte della Nato. Tutto da valutare, infine, è ancora il significato delle parole del dimissionario presidente libanese Michel Aoun, che per la prima volta non ha escluso il raggiungimento della pace con Israele. Certo è che se nei dirigenti di Beirut, cristiani o musulmani che siano, prevalesse la preoccupazione per l’interesse nazionale, la scelta verso una normalizzazione dei rapporti con Israele comporterebbe un aiuto di grande rilievo per la ricostruzione economica del Paese.
Ma perché, dobbiamo chiederci, gli Emirati si sono decisi a un passo che in realtà era in preparazione da lungo tempo e che è stato preceduto da alcuni atti simbolici che avevano lo scopo di preparare il terreno all’atto politico vero e proprio? Si ricordi tra questi la premiazione di un atleta israeliano nei campionati mondiali di judo svoltisi ad Abu Dhabi nell’ottobre 2018 e la conseguente esecuzione dell’inno israeliano alla presenza dei rappresentanti ufficiali emiratini, un episodio il cui significato sottolineammo in un articolo su “Moked” del 1° novembre 2018 (“Eppur si muove…”). Tutti i commentatori sottolineano il carattere anti-iraniano dell’accordo, e affermano che esso potrebbe costituire il nucleo di un più ampio fronte contro l’espansionismo dell’Iran, favorito dagli Stati Uniti di Trump. Che i timori per l’espansionismo sciita guidato da Teheran sia uno degli elementi che stanno alla base dell’accordo è indubbio. Ma sarebbe un errore leggerlo solo alla luce di questa prospettiva. Ci sono in realtà altri elementi molto solidi che spiegano una decisione che, come abbiamo visto, non è stata improvvisata ma costruita nel tempo. I dirigenti emiratini hanno compreso che per un Paese ricco di risorse petrolifere e finanziarie come il loro un rapporto costruttivo con il Paese economicamente e tecnologicamente più sviluppato del Medio Oriente era una strada obbligata. Il tabù imposto per decenni dai dirigenti palestinesi si è progressivamente sbriciolato di fronte all’evidente rifiuto dell’Olp di accettare una qualunque soluzione del problema in accordo con Israele, scegliendo invece la strada di favorire un progressivo isolamento di quest’ultimo rispetto al mondo occidentale. Ma se hanno ottenuto qualche apparente successo in questa direzione, non hanno capito che si trattava di successi di facciata, che comunque accanto a Israele continuavano e continueranno a esserci gli Stati Uniti e che quello che guadagnavano in Europa lo perdevano ampiamente in Medio Oriente.
Un’ultima notazione riguarda l’atteggiamento dei media italiani di fronte all’accordo. Dopo essersi tanto riempiti la bocca con la parola “pace”, i media italiani, riflettendo l’orientamento di alcune forze politiche, si sono mostrati quantomeno imbarazzati e confusi di fronte all’accordo. Alcuni quotidiani, come Il Manifesto e Il Fatto quotidiano hanno mostrato un’immediata ostilità. Gli altri, soprattutto i grandi quotidiani di informazione, non hanno certo mostrato entusiasmo per l’accordo, limitandosi a segnalarlo come notizia senza spingersi a valutarne le conseguenze (con l’eccezione di Maurizio Molinari: “La Casa Bianca e il Grande Gioco del Medio Oriente”, Repubblica del 15 agosto) e facendolo scomparire il prima possibile anche dalle pagine interne. Ancora più esplicito è stato il comportamento delle tv che, dopo aver dato la notizia, si sono ben guardate dall’approfondirne il significato in qualcuno dei tanti talk show che imperversano sugli schermi.
Segno, prima di tutto, di un radicato provincialismo del sistema dell’informazione in Italia, riflesso a sua volta del provincialismo della vita politica italiana per la quale è più importante la disputa su questa o quella dichiarazione di questo o quel sottosegretario di quanto avviene in un’area strategica, anche per gli interessi italiani, come il Medio Oriente. Segno anche del permanere di fossilizzazioni ideologiche, in base alle quali la “causa palestinese” resta uno dei parametri di valutazione fondamentali, quando ormai questo parametro è stato abbandonato dalla maggior parte degli Stati maggiormente interessati, quelli arabi.

Valentino Baldacci

(20 agosto 2020)