Troppo vuote o troppo piene
Non so fino a che punto l’abitudine di frequentare le sinagoghe abbia davvero a che fare con la preghiera e con la spiritualità e quanto non sia invece un modo per incontrare persone, ascoltare le ultime notizie, sentirsi parte di una comunità. Ma questo era vero nel passato anche più di oggi, ed è vero, oggi come nel passato, anche per altre religioni. Non che ci sia qualcosa di male, anzi, è bello che un luogo di culto possa essere significativo anche per chi non è credente e possa essere uno strumento che rafforza la coesione di una collettività. Solo, mi sembra difficile fare confronti con il passato e dedurre regole generali. Tanto più che ci troviamo in un contesto del tutto inedito (almeno, per la nostra epoca), in cui tra un mese le sinagoghe rischieranno non di essere troppo vuote ma, anzi, troppo piene o con troppi aspiranti a entrarvi.
Il numero dei contagi sta infatti risalendo, la riapertura delle scuole non migliorerà certo la situazione, e le nostre festività autunnali arriveranno proprio in quel periodo o poco dopo. Non so cosa dovremo aspettarci. Dieci o venti turni perché tutti possano ascoltare il suono dello shofar o entrare in una sukkà comunitaria? Sempre che non ci sia un nuovo lockdown, s’intende. E come si farà per Kippur, che per molti ebrei è praticamente l’unica occasione in un anno di entrare in una sinagoga? Non riesco a immaginarlo.
Suppongo che le Comunità e l’UCEI ci stiano già pensando da tempo e si stiano organizzando per ogni evenienza, ma non ho capito quanto siamo davvero preparati a ciò che ci attende. A Purim non lo eravamo quasi per nulla, e infatti sono arrivati segnali contraddittori, da una parte inviti a restare a casa e dall’altra avvertimenti sul fatto che la lettura della Meghillà in streaming non fa uscire d’obbligo, come se si volesse spingere la gente a partecipare alle letture collettive che pure contemporaneamente venivano sconsigliate. Va detto, comunque, che in quel momento, all’inizio di marzo, le dimensioni della tragedia ancora non erano evidenti.
A Pesach, nel momento più buio della pandemia, i segnali sono stati chiari e inequivocabili e le nostre Comunità e l’UCEI, per quanto ho potuto sperimentare, sono state straordinariamente efficienti nel distribuire i prodotti kasher e fare in modo che tutti potessero organizzarsi un seder casalingo. Ma tutto sommato a Pesach le cose erano più facili, perché è già di per sé una festività da celebrare in famiglia e le cose da fare per uscire d’obbligo sono sostanzialmente alla portata di tutti. Per di più l’ordine di chiudersi in casa è contenuto proprio nell’Esodo. Certo, chi di noi era abituato a fare il seder con amici e parenti ci è rimasto male, ma Rosh Hashanà e Kippur potrebbero comportare sacrifici per noi molto più duri da sopportare, anche perché siamo reduci da mesi difficilissimi, stanchi di restrizioni, preoccupati per il futuro.
Insomma, dovremo accettare il fatto che anche il 5781, almeno all’inizio, sarà anomalo e difficile come lo è stato il 5780. Troveremo la forza per affrontarlo se sapremo essere uniti e se, come sempre, la sacralità della vita umana sarà considerata chiaramente un valore imprescindibile.
Anna Segre, insegnante
(21 agosto 2020)