La grande finzione

All’ipertrofia dell’ego, all’elogio acritico e astorico delle «piccole patrie», ma anche all’esaltazione delle identità individuali e di piccolo gruppo come se esse fossero sostitutive del principio di maggioranza e, con esso, del mondo stesso (laddove sono invece la cristallizzazione di una parte di se stessi, una sorta di eterna di proiezione di una parte propria, che si rimpiazza alla capacità di dare uno sguardo nel suo insieme a ciò che ci sta intorno, nella sua incredibile differenza), si accompagna la risposta di chi si è all’eterna ricerca di un qualche principio di omologazione. Che si tratti di quello praticato da organizzazioni riconosciute (come gli Stati) così come da gruppi che aspirano a conquistarne il controllo. La simpatia per i movimenti fondamentalismi militanti, per i quali il ricorso all’azione terroristica non è un elemento di corredo ma un fattore di accreditamento e fascinazione dinanzi ad una platea di “spettatori” più ampia di quanto si sia disposti a riconoscere (“guardateci, usiamo la violenza poiché siamo noi gli autentici titolari del monopolio della forza”), si inscrive in questa logica. Che sta alla base di quei fenomeni storici che, nel secolo da poco trascorso, abbiamo imparato a definire come «totalitarismi». Non ci interessa indagare sulla funzionalità e la correttezza di una tale definizione. Gli storici spesso storcono il naso, e a ragione, rispetto all’uso indiscriminato di questa parola. In quanto, per dire tutto rischia di spiegare poco o nulla. Qui, semmai, il ragionamento non ha a che fare con il passato, e le sue interpretazioni, bensì con il presente. Ovvero, su quel che resta di trascorsi non troppo distanti, che hanno concorso a modellare identità, condotte e appartenenze collettive; ovvero, a stabilire “norme” (non solo di legge), pensieri, aspettative, speranze, attese così come anche frustrazioni e delusioni. Il tutto, giunto fino ad oggi, al nostro tempo, quindi presente nei pensieri di ognuno di noi. Spesso dissonante, nella sua sostanza, rispetto ai mutamenti che ci stanno coinvolgendo, con il passaggio, sempre più accelerato, da un’economia industriale ad una digitale. La potenza di certo fondamentalismo – che da sempre si accredita dinanzi al suo uditorio come critica legittima, ancorché feroce (e forse proprio come tale maggiormente desiderabile e quindi accettabile), delle ingiustizie del presente – sta nell’azzerare completamente qualsiasi pluralismo, rendendo invece desiderabile l’uniformarsi ad un unico standard. Qualunque esso sia, trattandosi comunque di qualcosa che influenza, fino alle sue radici, la vita quotidiana: la modella, la condiziona costantemente, dando la falsa impressione, a chi lo fa proprio, di essere “dalla parte giusta”. Quella dettatagli dalla “storia”, ovvero dal senso di giustizia. Esiste una triste reciprocità tra chi riduce la vita del mondo alla sola proiezione della sua identità (come del suo piccolo gruppo di riferimento) e chi, invece, in una sorta di gioco rovesciato, scioglie completamente se stesso dentro un’appartenenza collettiva dove, di fatto, perde completamente i contorni della sua individualità. Il punto di contatto è quello della negazione del pluralismo. Nel primo caso si enfatizza e si assolutizza la propria soggettività, quasi sempre identificandola con un suo aspetto, che riguardi la sfera morale, sociale, sessuale, religiosa piuttosto che altro ancora. Nel secondo caso, invece, si cerca nell’adesione ad un movimento collettivo, possibilmente così forte da risultare vincente, di sfuggire all’incapacità di darsi delle ragioni per capire il proprio e l’altrui presente. Il fondamentalismo ideologico, di qualsiasi abito si ammanti e si rivesta, soddisfa queste esigenze. Nei fatti è uno scimmiottamento delle militanze che, un tempo, si proponevano di cambiare il mondo intero. Poiché di quel mondo, che dice invece di volere mutare alla radice, ne consegna ai suoi aderenti un’immagine non solo semplificata ma farsesca. Ne cancella qualsiasi complessità, sostituendola con un unico principio, ben presente nei costrutti complottistici: quello per cui la ragione delle ingiustizie riposerebbe nella trama inconfessabile dei rapporti di potere di gruppi tanto altolocati quanto irraggiungibili. Qualsiasi fondamentalismo, di qualsivoglia genere, è invece già di per sé una congiura non solo contro la ragione (che è tale quando riesce a capire il senso della pluralità della vita) ma anche nei confronti di quella stessa “giustizia” che viene ossessivamente evocata come il principio al quale tutti (e tutto) dovrebbero uniformarsi. Fingendo una denuncia spietata e inclemente del potere medesimo quando, nei fatti, se ne ambisce a farne parte. Non per giustizia bensì per privilegio da acquisire, accampando la propria superiorità morale e civile sul resto della società. Di esempi, ce ne sono in grande quantità nel nostro presente, assai più indecifrabile – e smemorato – della storia, alla quale spesso ci appelliamo come se fosse un giudice che ci può aiutare nel mentre non ne accettiamo i verdetti. D’abitudine afferma Edgar Morin che “la prima lezione della storia è che non impariamo lezioni dalla storia”.

Claudio Vercelli