Oltremare – Il rumore degli spalti

Il rumore, i cori, i fischi, le parolacce, tutto quello che esce dagli spalti di un normale stadio di un normale paese e viene recepito dalle dirette, ecco qualcosa che non mi ha mai colpito più di tanto, salvo in caso di cori razzisti e allora per me si può tranquillamente uscire dallo stadio o spegnere la televisione, e togliere il pallone a quei ventidue giovanotti in calzoncini, che vadano a insegnare la tolleranza ai loro tifosi se proprio ci tengono a calciare un pallone. Essere d’esempio, una cosa d’altri tempi e di altra altezza etica, ma non di questo voglio parlare oggi.
Come molti israeliani, anche io ho appeso il passaporto al chiodo e ho un ultimo viaggio mitologico cui fare riferimento in epoca spensierata e pre-covid. Nel mio caso si è trattato di una settimana a Londra, che fra giardini colorati dei mille colori dell’autunno, musei senza fine, birrerie storiche e castelli assortiti ha compreso una infuocata partita dell’Arsenal. Fine ottobre 2019, eccomi a un tiro di monetina dal campo verdissimo (invidia, come fanno ad avere quel verde perfetto qui? ah, piove sempre, giusto) in cui l’Arsenal cerca di recuperare mi pare due sconfitte di fila. Nessun concerto rock, nessun festival nel deserto o rave party produce la fiumana di persone con o senza sciarpe o magliette rosse e bianche che riempiva la metropolitana, e si riversava sui duecento metri di strada fra la stazione e lo stadio, e poi al ritorno, parecchio meno entusiasti dopo una terza sconfitta, dallo stadio alla metro. E in nessun concerto il pubblico fa tanto rumore, naturalmente. In 90 minuti di gioco ho sentito più urla e parolacce colorite che in decenni di cinema americano, e dico poco. Ma l’effetto sulle orecchie era simile a quello degli amplificatori a mille: usciti dallo stadio ci ho messo almeno un’ora prima di recuperare l’udito nella sua interezza.
Perciò, quando ieri sera (ci tengo a precisare, non per mia iniziativa) mi son trovata davanti alla finale di Champions in tivù, e c’era il solito rumore di cori, fischi eccetera di sottofondo, ho continuato a leggere il mio libro sul divano. Questo finché non ho alzato gli occhi e realizzato che gli spalti erano vuoti. Le mie orecchie sentivano i tifosi, ma i tifosi non c’erano. Assenti. Stadio vuoto, chissà che eco a ogni pallonata. Ammetto per qualche motivo non mi ha fatto tristezza – avrebbe dovuto, forse, visto che la causa è il covid – e invece ho preso a ridere fino a rotolare dal divano. Non so come sia venuto in mente alla produzione televisiva, ma a me è parsa la metafora perfetta per un mondo che ha smesso di avere qualunque rapporto con la realtà. Faranno lo stesso con i concerti rock? Solo ditelo al cantante, che accecato dai riflettori non si lanci sul pubblico pensando che lo tengano su a braccia.

Daniela Fubini

(24 agosto 2020)