Il terribile mistero
del nervo scoperto

Un terribile mistero si aggira nelle nostre esistenze perché, se il mondo in cui viviamo è nulla rispetto alle galassie, nondimeno è quello che ci ospita e che agita le nostre notti. Anche il microcosmo ebraico italiano è perfino difficile da scorgere, eppure esiste e si dibatte. Chi sono, cosa fanno, quale logica presiede alle azioni degli ebrei italiani pro israeliani? Qui non vi è spazio per il dilemma sulla natura della verità, che infiamma ancora i dibattiti religiosi, perché la risposta è tanto semplice quanto disarmante. Anche il suo riscontro è semplice, perché vi è soltanto l’imbarazzo della scelta nel reperimento. Costoro, per taluni, sarebbero soggetti che avrebbero per Israele lo stesso atteggiamento acritico e fideistico dei comunisti nei riguardi del c.d. socialismo reale. Si asserisce pure che sarebbe da condannare chi si basa sull’unicità dell’Olocausto per costruire il tabù della critica a Israele. Certo, quello sarebbe un salto logico non da poco: ma questo tabù esiste? Dov’è documentato? A me non risulta, o perché non esiste oppure perché chi lo cita si guarda bene dall’indicarne la paternità e gli estremi per il reperimento. Spesso si evoca Yehuda Bauer, e lo si fa in modo superficiale, perché costui ha ben chiarito che “The Holocaust, then, is a form of genocide, but it’s a unique, unusual, and unprecedented form of genocide”; vedi qui.
Togliere al popolo ebraico l’unicità della Shoah è un’operazione che potrebbe mettere in crisi la ragion d’essere dell’ebraismo italiano.
Non bisogna trascurare un indice significativo, laddove si tracciasse una conseguenza negativa purchessia che prendesse le mosse dall’unicità dell’Olocausto, perché così facendo chi finisce sul banco degli imputati è tale unicità. In un colpo solo, si fa venir meno la dimensione unica della Shoah ed il diritto degli ebrei di ricordare soltanto le loro tragedie, come fanno tutti i popoli, in quanto gli ebrei sarebbero i soli a non poter evocare la loro storia senza evocare al contempo tutte le altre: cosa sarebbe questa se non una discriminazione?
Non è difficile dimostrare quanto andiamo dicendo, perché il 24 giugno u.s. su Moked ed il 5 luglio u.s. sul Corriere della Sera, rispettivamente Francesco Lucrezi e Yair Lapid pubblicarono due bellissimi articoli contro l’estensione della sovranità israeliana su alcune zone della Cisgiordania, senza che trovassero non solo ostilità ma nemmeno alcuna obiezione, a dimostrazione che le critiche serie e scevre da demonizzazione e manicheismo non suscitano mai alcuna opposizione. Peccato che i soggetti che si autoproclamano riflessivi, equanimi, obiettivi ed amanti del confronto spesso non se ne accorgano, a dimostrazione che hanno una visione molto indulgente di loro stessi ed assai sbagliata del prossimo.
Possiamo quindi ipotizzare che queste ripetutamente invocate posizioni oltranziste e unilaterali non esistano, perché nessuno si è mai sognato di sostenere che il governo d’Israele non possa essere criticato, a meno che si peschino nei social dei soggetti bizzarri, fra i terrapiattisti e quelli che sostengono che i marziani sono fra di noi. Non sarebbe azzardato pensare che queste gratuite qualificazioni siano un modo illegittimo di tappare la bocca a chi difende Israele, tacciandolo di essere un ottuso che non accetta le critiche a Netanyahu, ossia, la solita accusa in cui si inverte l’onere della prova. Si tratta, però, di un espediente cui si ricorre in buona fede, nella misura in cui (come si diceva una volta) ci si autoconvinca anche di ciò che logico non è, così come è umano vedersi in una luce migliore di quella che ci meritiamo: chi di noi ne è esente?
Rispetto al passato, è questo il solo e vero elemento di novità, l’attribuzione assolutamente arbitraria all’avversario di essere affetto da una refrattarietà patologica alle critiche al governo in carica in Israele. Siamo sicuri che questa problematica non sia stata presente in tutte le elezioni degli organi dell’ebraismo italiano? Sicuramente il lettore penserà, a questo punto, che presento questo quadro soltanto per confutarlo, però la mia intenzione è quella di capirlo. Per esempio, si suole sostenere, freudianamente, che non si accettano le critiche ad Israele, anziché scrivere “al governo d’Israele”: è un caso?
L’esempio più recente e, in quanto tale, più facile da capirsi, riguarda la figura del primo ministro israeliano in carica, di cui, secondo una diffusa vulgata, tutti i c.d. pro israeliani sarebbero dei seguaci fanatici. A parere di chi scrive, nella fattispecie si scontrano, più semplicemente, due visioni opposte della propria salvezza. Per una di esse, il problema principale risiede nella salvaguardia d’Israele, come àncora di salvezza per chi reca l’imprinting della Shoah. Per l’altra, bisognerebbe offrire un’immagine migliore di sé stessi, come popolo aperto al confronto. Secondo alcuni sostenitori dell’ultima tesi, bisognerebbe – addirittura – che si ricordassero a Yad Vashem tutti i giusti dell’umanità e non soltanto quelli che hanno salvato gli ebrei.
Sennonché, così facendo, ci differenzieremmo dal resto dell’umanità, anziché uniformarci. Provate a proporre al movimento ‘Black lives matter’ di aggiungere: “jewish lives matter, armenian lives matter, female lives matter, uiguru lives matter” e poi fatemi sapere, oppure chiedete ai movimenti palestinesi di aggiungere “jewish lives matter”. Oppure, proponete che nel Memoriale di Hiroshima, si citino tutti i crimini, nessuno escluso. Giustamente, si rifiuterebbero, perché un movimento che nasce e vive con uno scopo, non può annacquarlo nell’universalismo. Tant’è che il sionismo, come tutti i movimenti di liberazione nazionale, nasce con uno scopo specifico. Se, poi, tutti i movimenti di liberazione nazionale si coalizzassero, saremmo tutti assai lieti, ma non sarebbe serio aspettarsi che ciascuno dismetta la propria identità. Asserendo che gli ebrei siamo chiusi, talvolta addirittura a livello istituzionale e su testate di altre fedi, si ritiene di smontare l’antisemitismo, scordando che l’antisemita non ha bisogno di scuse. L’antisemitismo nazista e fascista nacquero e prosperarono proprio dove gli ebrei erano più assimilati, in Germania e in Italia. Vi è, poi, un secondo problema, non meno rilevante: se si postula che l’antisemitismo prosperi perché gli ebrei sono chiusi, la colpa del razzismo e dell’odio passa dall’antisemita all’ebreo, in un esempio classico di “victim blaming”. Terzo ed ultimo problema: così facendo si creano due categorie di ebrei: quelli buoni e quelli chiusi. Fra questi ultimi, di recente si sono tirati in ballo gli ebrei libici fuggiti nel 1967; a nulla vale, poi, per contestare questa accusa gratuita, citare la straordinaria capacità d’integrazione e di apertura mentale di costoro.
Pensate che l’antisemitismo sia anche colpa degli ebrei? Provate a dire che la colpa del razzismo anti gay, anti neri, anti donne, che vediamo tutti i giorni, sia colpa della chiusura dei gay, dei neri e delle donne. Evidentemente, gay, neri e donne sono più bravi e più seri di noi nel difendersi; dovremmo andare a ripetizione da loro. Scriveva Amos Oz che “il fanatico non discute”; forse l’ebraismo italiano non lo è, ma l’ultimo dibattito degno di quel nome che ricordi è quello del 1977 fra Umberto Terracini e Bruno Zevi. Due giganti, certo, ma non è essenziale svettare per promuovere un dibattito, eppure non ne vediamo. Paolo Mieli (Corriere, 15 maggio 2012) scrisse che “il tic di chiedere ai «compagni ebrei» di essere in prima fila quando c’è da attaccare Israele è ben lungi dall’essere scomparso del tutto”. Pero allora non avevano ancora trovato il modo di demonizzare chi difende Israele (Israele, non il governo), ora l’espediente esiste e continuerà ad essere usato, anche perché il problema non è la libertà di critica, ma dimostrare che si è ebrei buoni e, perché vi siano i buoni, è giocoforza che ve ne siano di cattivi.

Emanuele Calò, giurista

(25 agosto 2020)