L’intervista a Benny Morris
“L’unica cosa che conta è la verità”

“Quello che mi interessa è la verità, non la giustizia. Ho ovviamente una mia visione personale di cosa sia giusto e cosa no ma nel mio lavoro di storico cerco di mettere in fila i fatti, di capire come sono andate le cose studiando i documenti. L’ho fatto con i miei libri sul conflitto tra arabi e israeliani, l’abbiamo fatto assieme al collega Dror Zeevi nel lavoro sul genocidio dei cristiani in Turchia”. La ricerca della verità, spiega lo storico israeliano Benny Morris a Pagine Ebraiche, è quello che ha guidato la sua carriera. “L’uso politico che fanno altri del mio lavoro non mi interessa”. Per questo ha sempre tirato dritto nonostante sia stato accusato da destra e da sinistra di essere un traditore o un ipocrita. Refusnik durante la prima Intifada (si rifiutò di servire nell’esercito perché considerava “legittima la lotta per lo più pacifica dei palestinesi contro l’occupazione israeliana”), dopo la violenza della seconda, con migliaia di morti israeliani assassinati dal terrorismo palestinese, i fatti ai suoi occhi sono cambiati e si è convinto che i palestinesi mai saranno veramente pronti alla pace. Parte della generazione che lui stesso ha definito dei nuovi storici, Morris, scavando assieme ai colleghi negli archivi israeliani, ha messo in crisi con le sue ricerche la narrazione degli storici sionisti della prima ora “secondo cui nel conflitto gli ebrei avevano tutte le ragioni e gli arabi tutti i torti”. Un lavoro che non ha mai rinnegato, anzi. Ma la violenza della seconda Intifada e i ripetuti no palestinesi alle proposte di una soluzione a due Stati lo hanno portato ad essere pessimista e a considerare i palestinesi come essenzialmente contrari alla pace e all’idea di una convivenza con lo Stato d’Israele. “L’ho capito studiando i documenti e le testimonianze: per i palestinesi noi siamo comunque degli intrusi, dei ladri che gli hanno espropriato la terra”, ha più volte ribadito. Nell’ultimo periodo il suo focus, dal punto di vista lavorativo, si è spostato: dopo decenni dedicati al conflitto arabo-israeliano, nell’ultimo anno ha fatto uscire un libro a quattro mani scritto con lo storico Dror Zeevi e dedicato a un tema comunque scottante: il genocidio dei cristiani sotto l’Impero ottomano. O, come recita il titolo del libro pubblicato in Italia da Rizzoli, Il genocidio dei cristiani. 1894-1924. La guerra dei turchi per creare uno stato islamico puro. Uno studio attuale e necessario per capire le basi su cui è nata la Turchia di oggi e le radici su cui si muove la politica dell’attuale presidente Recep Erdogan.
I due storici sono andati in particolare a scavare nella storia turca e nei documenti d’archivio e per la prima volta hanno messo in fila tre eventi spesso analizzati in modo distinto: l’uccisione ed espulsione di massa degli armeni, degli assiri e dei greci. Tre crimini che secondo Morris e Zeevi fanno parte di un unico piano.
Qual è la novità della vostra tesi?
Non siamo ovviamente i primi storici a studiare questi argomenti, prima di noi lo hanno fatto studiosi armeni, turchi, americani, britannici. Ma quasi nessuno ha scritto delle azioni contro le tre grandi comunità come se fossero parte di un progetto di cancellazione unico. Noi abbiamo messo tutto insieme e spiegato che non c’era un sentimento solamente anti-armeno, anti-greco o anti-assiro, ma in generale anti-cristiano. Si voleva creare uno stato omogeneo, senza una minoranza cristiana vista come una quinta colonna, come una spina nel fianco di un progetto di Turchia puramente musulmana. E così a partire dalla fine dell’Ottocento iniziarono le uccisioni di massa e le deportazioni.
Nel libro anche la figura di Ataturk, considerato in Occidente un modernizzatore, viene ricondotta al genocidio.
Ataturk fece in modo che la minoranza greca in Turchia, e parliamo di due milioni di persone, fossero o uccise o espulse. Accadeva mentre lui guidava le forze nazionaliste e poi il governo nazionalista tra il 1919 e il 1923. Prima della svolta laicista, Ataturk si comportò da vero credente musulmano e si liberò dei cristiani.
Pensa che ci sia un legame tra quei fatti tragici del primo Novecento e la Turchia di oggi con l’islamizzazione portata avanti dal presidente Erdogan?
La differenza è che non ci sono più cristiani da uccidere o da espellere. Ma c’è una continuità nel tentativo di cancellare l’impronta cristiana dalla storia turca. È quello che hanno fatto il sultano Abdülhamid II, i Giovani Turchi e poi Ataturk. Erdogan ora lo fa ad esempio facendo diventare una moschea Santa Sofia. Non vuole che si ricordi che la Turchia ha avuto un secolare passato di dominazione cristiana.
A parte alcune voci isolate, le azioni di Erdogan non hanno ricevuto però una condanna internazionale chiara. Come mai?
L’Islam è una potenza nel mondo. La Turchia, a sua volta, è una potenza del mondo islamico e nessuno vuole dispiacerla o dispiacere i musulmani in generale. Per questo, non viene ma punita o buttata fuori dalla Nato. Inoltre, i cristiani d’occidente non
sono interessati al destino degli altri cristiani delle terre orientali. Non è così con i musulmani: ad esempio in Inghilterra, i musulmani si preoccupano per ciò che succede ai loro fratelli in Iraq o Siria. E arrivano persino ad uccidere qualcuno in Inghilterra per ciò che qualcuno fa in Iraq.
Di Israele invece si parla spesso. Come vede il tema dell’annessione dei territori e del futuro con i palestinesi?
Sono un pessimista, i palestinesi non vogliono i due stati, non vogliono un compromesso, vogliono l’intera Palestina. Il problema è che Netanyahu parla allo stesso modo, ma dall’altra parte. Ha questa immagine di essere un uomo efficace e convincente ma in realtà non lo è: un giorno parla a favore dei due stati l’altro contro, il terzo giorno è annessione. È un opportunista, un pragmatico, ma per me non è un buon leader, non ci sta guidando da nessuna parte. Non decide veramente su nulla. Anzi, è riuscito a lasciare agli arabi, o per lo meno a Fatah, la parte di chi è impegnato nella pace. È falso, i palestinesi fanno solo finta di essere interessati alla pace e la storia lo dimostra. Ma Netanyahu, con il suo atteggiamento inflessibile permette che fingano di volere i due stati.
Lei per le sue posizioni è stato accusato di essere un traditore prima da destra e poi da sinistra. Come si spiega questo tentativo di denigrarla?
Ogni volta che una ricerca storica non coincide con il credo politico di qualcuno allora si è accusati di tradimento. Io non guardo così il mondo, io sono uno storico, cerco di scrivere di storia, di raccontarla per come emerge dai documenti, dai fatti, quindi non mi importa quali implicazioni politiche hanno sul presente politico le mie ricerche.

Daniel Reichel, Pagine Ebraiche Agosto 2020