Hannah Arendt e il suo occhio segreto

È stata uno dei pensatori politici più importanti del Novecento ed è un’icona del suo tempo. I giudizi fulminanti di Hannah Arendt hanno forgiato un’epoca, le sue riflessioni sul totalitarismo e il razzismo restano ineludibili e la “banalità del male” è un concetto ormai entrato nel linguaggio corrente. Di lei si conoscono la fuga drammatica negli anni della persecuzione nazista, la complicata vita sentimentale, le amicizie con gli intellettuali più prestigiosi del tempo. Pochi però avevano avuto modo finora di apprezzare il suo talento di fotografa. Armata di una minuscola Minox – la “macchina fotografica delle spie” – Arendt per decenni ferma sulla pellicola le immagini di amici e conoscenti con risultati spesso sorprendenti. Sono volti più o meno noti. Frammenti preziosi di vita – attimi felici, ritratti rubati, scatti estemporanei. Un album fotografico come tanti, se non fosse che i soggetti ritratti portano i nomi di Martin Heidegger, Karl Jaspers o Mary Mc Carthy e l’autrice ha un occhio invidiabile.
A portare alla luce questo risvolto per molti inaspettato è la mostra Hannah Arendt and the Twentieth Century aperta fino al 18 ottobre al Deutsches Historisches Museum di Berlino. Curata dalla filosofa Monika Boll, l’esposizione ricostruisce l’esperienza e il pensiero di Arendt come intellettuale pubblica attraverso documenti, immagini e girati d’epoca fra cui la citatissima intervista a Günter Gaus del 1964 e incontri più recenti come quelli con la filosofa ungherese Agnes Heller o il politico Daniel Cohn Bendit.
In sedici capitoli prende così forma una riflessione che investe i temi più pressanti del suo tempo – l’eredità coloniale, l’orrore senza precedenti del nazismo, il razzismo, la società americana, il femminismo, il sionismo. Sono però le fotografie scattate da Arendt, di cui in queste pagine proponiamo una selezione, a ricomporre sotto i nostri occhi il mondo elusivo dei suoi affetti.
La filosofa acquista la sua “spy camera” Minox a Monaco nel 1961 con l’amica Anne Weil. È il genere di macchina che allora va per la maggiore, un vero gioiello meccanico. Pesa poco più di un etto e sta nel palmo di una mano. Lunga 80 millimetri e larga 27, ha un sistema di apertura telescopico. Quand’è chiusa nasconde sia l’obiettivo sia il mirino. Utilizza una pellicola da 16 millimetri ma garantisce ottimi risultati anche negli ingrandimenti. È il genere di apparecchio che s’infila in tasca o in borsetta e non dà nell’occhio.
L’inventore, l’autodidatta lettone Walter Zapp, la sognava alla portata di tutti.
Una macchina facile da usare e poco costosa. Fin dagli esordi, gli alti costi di produzione ne fanno però un prodotto di nicchia. La Minox attrae gli ambienti dell’intelligence negli Stati Uniti, in Germania, Gran Bretagna e presto diventa uno dei gadget più ambiti dai gerarchi nazisti. Dopo la guerra, quando da Riga la produzione si sposta in Germania, la fotocamera è ridisegnata. La nuova macchina somiglia all’originale, ma il telaio di plastica è rivestito da un guscio di alluminio. È un’innovazione che riduce il peso e in parte il costo ma resta un oggetto di lusso e da spie.
È facile immaginare Hannah Arendt mentre mentre ritrae gli amici più cari, gli amori e le amiche con la sua lucente Minox. Ci si specchia senza sforzo in quel gesto così contemporaneo, replicato ogni giorno milioni di volte da milioni di smartphone in tutto il mondo. E per un attimo l’icona si si svela nella sua affettuosa umanità.

Daniela Gross, Pagine Ebraiche Agosto 2020

Heinrich Blücher

Hannah Arendt e Heinrich Blücher si conoscono a Parigi, nel 1936, in un caffé frequentato dal comune amico Walter Benjamin e da altri emigrati tedeschi. Sono entrambi fuggiti dal nazismo e non possono essere più diversi. Blücher (qui in uno scatto del 1961) è un poeta e filosofo marxista berlinese.
Figlio di una famiglia operaia, è autodidatta, ha fatto parte del partito comunista e poi dell’opposizione antistalinista. Entrambi sono ancora sposati ma è amore a prima vista. Un anno dopo, nel 1937, lei è privata della cittadinanza tedesca e divorzia dal primo marito, il filosofo ebreo Gunther Stern, emigrato in America con i genitori.
Intanto ha iniziato a frequentare Blücher e presto vivono insieme. Si sposano il 16 gennaio 1940 e un anno più tardi emigrano insieme negli Stati Uniti dove Blücher presto diventa popolare nei circoli intellettuali. Malgrado non possieda titoli accademici, insegna filosofia al Bard College con gran successo. È lui a incoraggiare Arendt a confrontarsi con il marxismo e la teoria politica che presto diventeranno così centrali nella sua riflessione. Muore di un attacco di cuore nel 1970 a New York, nell’appartamento che condivide con la moglie. “La vita senza di lui sarebbe impensabile”, aveva scritto Arendt all’amica Mary McCarthy. Cinque anni dopo, un attacco di cuore ucciderà anche lei. Sarà seppellita accanto al marito nel cimitero del Bard College.

Martin Heidegger

Martin Heidegger ha quasi ottant’annni, quando Hannah Arendt lo ritrae in quest’immagine scattata nel 1967 a Friburgo. I due si conoscono ormai da mezzo secolo. Lei ha 18 anni quando nel 1924 lo incontra all’università di Marburgo. Lui ne ha 35. È un bell’uomo, geniale, al centro di una rivoluzione intellettuale destinata a fare epoca. È anche sposato ed è il suo insegnante ma diventano amanti. La relazione dura per quasi quattro anni, poi si separano e imboccano strade opposte. Nella primavera del 1933 Martin Heidegger è eletto rettore dell’università di Friburgo e conclude il suo indirizzo inaugurale, in cui indica in Hitler l’artefice del rinnovamento spirituale del popolo tedesco, con un tonante Sieg Heil. Dal canto suo, Arendt prende posizione contro il regime, è arrestata con la madre dalla Gestapo e nel 1933 costretta alla fuga, prima in Francia e poi negli Stati Uniti. Un anno prima, gli ha chiesto conto delle posizioni filonaziste. Lui non ha smentito, garantendole che comunque i suoi sentimenti per lei sono immutati.
Arendt condanna pubblicamente il comportamento di Heidegger. Malgrado ciò, quando si incontrano di nuovo in Germania nel 1950, la loro relazione riprende per un paio d’anni. Quando la moglie di Heidegger mette fine alla loro storia d’amore, restano amici fino alla morte di lei nel 1975. Lui morirà un anno dopo. Negli ultimi anni, Arendt lo aveva aiutato a pubblicare il suo lavoro in America.
Il loro complicato rapporto, già noto agli amici, diventa pubblico nel 1982 con la biografia di Elisabeth Young-Bruehl. Lo scandalo esplode nel 1995 quando Elzbieta Ettinger, che ha accesso alla corrispondenza che i due avevano tenuta segreta, dedica un libro alla loro relazione a cui segue la pubblicazione del carteggio. Sono lettere che, al di là del gossip e delle facili condanne, gettano una luce rivelatrice su entrambi e mostrano fino a che punto il pensiero di questi due giganti intellettuali del Novecento si sia intrecciato e influenzato.

Mary Mc Carthy

Molto si è detto e scritto delle sue amicizie con i mentori intellettuali, i colleghi e i mariti, ma le amicizie femminili di Hannah Arendt sono spesso passate in secondo piano. A giudicare dalle lettere, pubblicate in Germania nel 2017, il rapporto con le donne è stato però più stretto e intenso.
Negli Stati Uniti, negli anni Cinquanta, una delle sue migliori amiche è la scrittrice Mary Mc Carthy, qui ritratta nel 1961, che diventerà sua esecutrice letteraria. Le due sono legatissime. Scambiano notizie e pettegolezzi, discutono di politica, letteratura e filosofia. Arendt invia a Mc Carthy i suoi manoscritti perché li commenti e riveda. Oltre a una profonda intesa intellettuale, le unisce il loro stato di outsider. Sono due donne brillanti e di successo in un mondo dominato da maschi spesso ostili (“the boys”, li chiamano nella loro corrispondenza). Sono sicure di sé e rifiutano di accarezzare l’ego dei loro interlocutori. McCarthy ha un talento per gli insulti e Hannah Arendt è considerata “troppo imperiosa” (Hannah Arrogance, la soprannominano).
La loro amicizia si conferma preziosa nel 1963, quando finiscono entrambe in un polverone di polemiche,
spesso opera di recensori amici, per due lavori che non potrebbero essere più diversi: Hannah Arendt per il saggio Eichmann in Jerusalem – A report on the Banality of Evil basato sul reportage dal processo al criminale nazista per il New Yorker e Mary McCarthy per il romanzo Il gruppo, pungente satira di costume che diventa subito un best seller.

Karl Jaspers

Hannah Arendt scatta questo ritratto nel 1967 a Basilea. L’incontro con il filosofo Karl Jaspers, che lì si è trasferito nel dopoguerra, risale a quarant’anni prima quando Arendt si trasferisce all’università di Heidelberg per seguire le sue lezioni e lì si laurea con una tesi sul concetto di amore in Sant’Agostino. L’iniziale rapporto studente-professore ben presto evolve in un’amicizia e un’intesa intellettuale destinati a durare tutta la vita e includere la moglie di Jaspers, Gertrude, e il secondo marito di Arendt, Heinrich Blücher.
Per Hannah Arendt il rapporto con i suoi mentori intellettuali – Jaspers e Heidegger – è di cruciale importanza e così lo sono gli amici. Lei stessa descrive l’amicizia come centrale nella sua vita e nel suo concetto di politica – come uno dei modi attivi di essere vivi. Non per caso Hans Jonas dirà di lei che aveva “un genio per l’amicizia”. È un’amica leale e generosa, una corrispondente instancabile.
Nelle lettere che per decenni scambia con Jaspers, pubblicate dopo la sua morte, scorrono i nodi più complessi del Novecento. Vi si ritrovano il dopoguerra in Germania, Israele e il processo Eichmann, gli Stati Uniti e la caccia alle streghe del maccartismo. Sono lettere personali e spontanee, che nessuno degli autori immagina destinate a un pubblico. Un dialogo straordinario fra un uomo e una donna, un tedesco e un’ebrea tedesca, un visionario e una mente analitica.