Lo stato dell’arte
Vedremo cosa ne sarà, di tutti noi, di qui alle prossime settimane. Non è un’affermazione catastrofista. Abbiamo inteso che la riapertura delle scuole (anzi, il poterle tenere aperte nei mesi a venire) è un test fondamentale non solo per il pur gigantesco circuito della formazione ma, anche e soprattutto, per l’intero Paese. Poiché si è capito che anche su di esse si giocherà una parte fondamentale della tenuta dell’intero circuito economico e sociale. Dopo di che – al netto dei fatti trascorsi e di quelli a venire – sei mesi almeno di assoluta eccezionalità, in Italia come nel mondo intero, hanno già portato ad una cronicizzazione di atteggiamenti e condotte che, molto spesso, non rispondono ad altre esigenze che non siano quelle di alimentare un fittizio “dibattito pubblico”, spesso asfissiante perché non solo basato sui luoghi comuni ma anche e soprattutto sulla loro ripetizione all’infinito. Ragionarci sopra (che è cosa ben diversa dal cercare di districarsi nella selva dei concreti problemi, non solo di ordine sanitario e diagnostico, che il SARS-CoV2 e il Covid19 portano inesorabilmente con sé) è allora un po’ come fare un percorso tra quel “luogo-comunismo” che è parte del modo in cui il nostro Paese si pone dinanzi non solo alle sfide dell’emergenza ma anche della più prevedibile quotidianità; ossia della gestione delle situazioni eccezionali attraverso gli strumenti della vita di ogni giorno. Giacché, alla resa dei conti, molte alternative non ci sono. Parliamo di pensieri comuni come anche – e soprattutto – della loro formazione e diffusione attraverso i mezzi di comunicazione. La madre di tutte le ipocrisie, al riguardo, è il classico incipit, basato sulla manifestazione di una falsa cautela, per cui, posta la formulazione generica del «non è il momento di fare polemiche ma…», seguono invece valanghe di affermazioni astiose e contraddittorie. Nella congiunzione finale, in quel «ma», c’è tutto il costrutto retorico che finge di volere capire quando invece intende solo affermare polemicamente. Per il gusto di mettere inutili bandierine. È una ovvietà della comunicazione politica alla quale abbiamo ripetutamente assistito in questi mesi. Va da sé che chi rappresenta una parte politica sia, per definizione, “di parte”. Rivendicando il legittimo diritto di esprimere la posizione di cui è – peraltro – chiamato a rendere pubblicamente conto. Tuttavia, in questi mesi le intemerate a costo zero, le prese di posizione apodittiche e inconfutabili poiché sostanzialmente irresponsabili, si sono ripetute con ossessiva costanza. L’irresponsabilità riposa nel riscontro che, dopo avere detto qualcosa di oltremodo impegnativo, non se ne assumono le conseguenze che da ciò derivano. Le polemiche, amplificate ad arte dai mezzi di comunicazione, sull’apertura (e poi la repentina chiusura) delle discoteche, luoghi per definizione di assembramento, ne costituiscono una tra le tante cartina di tornasole. Ad un primo fuoco di sbarramento sull’insindacabilità dell’esercizio di un presunto diritto al “divertimento”, che sarebbe invece stato vincolato se non conculcato dalle autorità nel nome di una non meglio precisata intenzione liberticida, sta ora seguendo l’imbarazzato silenzio, dopo il prevedibilissimo riscontro che non rispettando le più elementari norme di sicurezza ne è quasi da subito derivata un’impennata dei contagi. Le vicende di questi giorni, che hanno riguardato soprattutto le condotte prive di ragionevolezza nei luoghi di vacanza, così come di loisir, erano del tutto prevedibili nel loro svolgersi. Rivelano semmai la fragilità della discussione pubblica sulla complessa gestione non solo della pandemia ma anche – e soprattutto – dei suoi effetti collettivi di lungo termine. Evidenziando, al medesimo tempo, perlopiù modalità di reazione destinate a ripetersi, in tutta probabilità, nelle settimane e nei mesi a venire, tanto più se si profilassero nuove emergenze. Modalità che possono quindi essere raccolte in alcuni passaggi. Il primo di essi è il pessimo gusto di triturare qualsiasi notizia dentro un impasto di drammatizzazione, scandalismo ed eclatanza; una sorta di nube purpurea, di effetto nebbiogeno, volutamente confusionario, che serve solo ad alimentare ansia. Non è un caso, poiché l’ansia stessa crea dipendenza: da nuove notizie, da rassicurazioni, eventualmente da esercizi di esorcizzazione dei quali si incaricano a proprio beneficio, il più delle volte, soggetti politici (e del mondo della comunicazione; spesso i due ruoli sono intercambiabili). Una seconda modalità è il ricorso alla rimozione dei problemi, fino a quando non esplodano nella loro piena evidenza. Il richiamo, poche righe sopra, alla vicenda del “diritto al divertimento”, costi quel che costi, si inscrive in questo ambito. La relativizzazione degli effetti di condotte basate sulla negazione dello stato di necessità (e quindi di cautela) è il tentativo di cancellare dalla consapevolezza collettiva non tanto i problemi in sé ma la loro complessità e, con essa, la necessità di essere responsabili. Da sé, prima di tutto. Prima ancora che una norma ce lo imponga. Si è responsabili quando la propria libertà e i propri diritti si incontrano e si intrecciano a quelli altrui. Punto e a capo. Beninteso, la rimozione non ha nulla a che fare con l’ottimismo razionale di chi cerca, invece, di contrastare il gusto perverso alla drammatizzazione. Sulla base, tuttavia, di chiari riscontri e, comunque, evitando di lanciare messaggi basati su false rassicurazioni. C’è poi una sorta di feroce meccanismo di specularità capovolta, ed è la terza modalità tra quelle che stiamo elencando, rispetto alla rimozione medesima: è l’enfatizzazione drammaturgica, quella che invece intenderebbe porre le premesse per una sorta di perenne blocco di tutte le attività, produttive, civili e sociali fino a data da definirsi. Come se un Paese, pur in condizione pandemica, potesse in qualche modo provvedere ai suoi bisogni assecondando il principio moralistico, ben prima che precauzionale, del «neanche un morto», in base all’assurdo precetto del «rischio zero», che ossessiona da tempo le nostre società. Ci pensiamo signori («padroni») di noi stessi al punto da ritenerci al di fuori di quella stessa natura della quale invece siamo parte, che ci piaccia o meno. Peraltro orientandone l’evoluzione, anche a nostro danno. L’enfatizzazione è funzionale non tanto ad un disegno politico preciso ma alla fallace convinzione che qualsiasi decisione, per essere efficace ed efficiente, debba essere sempre delegata a pochi poteri, possibilmente non giudicabili. In una condizione mentale (prima ancora che organizzativa, cosa di cui spesso siamo peraltro incapaci) di eterna “eccezione”, laddove si sospende qualsiasi dialettica politica ma anche civile. Rimozione (fino alla negazione dell’evidenza) ed emergenzialismo alimentano e corroborano da sponde opposte gli atteggiamenti parassitari di quei soggetti dell’azione collettiva (forze politiche e sociali ma anche istituzioni e amministrazioni così come, tanto più di questi tempi, gli opinion maker) che derogano dall’assunzione effettiva di responsabilità. Sostituendo ad essa la declamazione di principi che, all’atto concreto, sono come quei sacchi insufflati d’aria. Non a caso – ci troviamo nel campo della quarta modalità – minimizzatori come enfatizzatori hanno qualcosa in comune, ed è la delega di quelle che sarebbero le loro specifiche competenze (e quindi le dirette responsabilità che ne derivano) ad “altri”, ossia al grande pubblico, le cui cattive condotte sarebbero invece alla base pressoché esclusiva della diffusione della pandemia medesima. Si tratta del notissimo meccanismo dello “scaricabarile” o, qualora si preferisca qualcosa di più raffinato, del gioco perverso alla ricerca del capro espiatorio: se durante la quarantena erano i solitari runner, i pensionati che stazionavano su una panchina dinanzi alla loro abitazione, gli italiani “che si comportano come sempre male” (salvo scoprire che il più delle volte così non è stato) ora, invece, gli untori sono il “popolo della movida”, i vacanzieri di ritorno e quant’altri. Presto, ci viene da temere, potrebbero essere gli stessi studenti e gli insegnanti. Ovvero, quello che si affollano – poiché impediti a fare altrimenti – sui mezzi di trasporto e nei luoghi di studio. In questo come negli altri casi si cerca un gruppo sociale diffuso e gli si attribuiscono le altrui incongruenze. Va da sé che condotte collettive in assenza di precauzioni siano fattori ad alta incidenza nel contagio. Il quale, tuttavia, si diffonde per una pluralità di elementi e fattori, in cui le scelte (o le omesse politiche) delle amministrazioni pubbliche e collettive, chiamate a stabilire e garantire protocolli condivisi e applicabili ovunque, costituiscono un fattore tanto dirimente quanto ineludibile. Sta di fatto che queste ultime rivelino spesso un tasso di scoordinamento, di conflittualità e di litigiosità che, oltre ad incrementare la confusione, si traduce in un disordine programmatico. Le gravi incertezze a due settimane dalla riapertura delle scuole, con un effetto sulla comunicazione pubblica da “mucchio selvaggio”, ne sono uno dei più vistosi riscontri. Nonché tra i maggiormente deludenti. Sei mesi, lo ripetiamo, evidentemente non sono bastati per dare corpo ad una risposta coordinata. La quinta modalità, che si incontra e si lega con quelle precedenti, è il demenziale rapporto che intercorre tra la compiaciuta (ed ancora una volta irresponsabile) denuncia di ogni forma di regolamentazione sociale come di un obbligato esercizio coercitivo, all’ossessivo richiamo alle peggiori punizioni qualora non si ottemperi in maniera bizantina alle norme vigenti. Due posizioni antitetiche (deregolamentazione o asservimento: per l’appunto, denuncia del “liberticidio” e minaccia della “galera”), che si osservano e si alimentano vicendevolmente, poiché partono entrambe dalla premessa che gli individui non siano capaci di esercitare su di sé forme di autogestione sulla base del riconoscimento di una necessità condivisa. I primi, nel qual caso, dichiarano qualsiasi limite da esercitarsi nell’interesse collettivo in quanto intollerabile intromissione nella libertà individuale, intesa come uno spazio assoluto, una sorta di feudo, a rischio di fare deragliare tutto ciò che sta intorno al proprio sgomitare; i secondi, non di meno, ritengono che ad ogni problema esista una sola risposta, quella populistica, oggi assai diffusa, per cui a chi “sgarra” debbano essere messi i ceppi. Possibilmente con il corredo del pubblico ludibrio, così come si faceva un tempo con la gogna (adesso sostituita dalla messa in mora attraverso i canali della comunicazione pubblica). Questo combinato disposto, spesso oscillante nei medesimi soggetti politici e sociali (per esempio tra le Regioni), divisi perennemente tra rifiuto di ogni vincolo e richiesta di legare tutto e tutti, nel qual caso adombrando manette di ogni genere e tipo, si è visto all’opera di nuovo in questi giorni. Anch’esso si ripeterà, prevedibilmente, dinanzi ai probabili problemi a venire. Negazionismo clinico, strepitii contro presunte prove generali di un qualche “colpo di Stato” si incontrano e si ricollegano al compiaciuto allarmismo che, nei mesi trascorsi, aveva invece indotto non pochi esponenti politici a chiedere (ed infine ad ottenere) la segregazione domiciliare di un’intera nazione, indicando come untori coloro che portavano il cane a fare i propri bisogni. Libertà come assoluto e sicurezza come totalità, entrambe due facce della stessa medaglia, sono la negazione della giustizia sociale. Oltre che del principio di ragionevolezza. La sesta modalità, che sintetizza buona parte di quanto si è andato dicendo nelle righe precedenti, è a sua volta una condizione che presenta due volti. Da una parte l’evidente incapacità di affrontare problemi complessi, a questo punto sistemici e sistematici poiché planetari, evitando di ridurli a discorsi moralistici. Se un tempo neanche troppo lontano si diceva che il «patriottismo è l’estremo rifugio delle canaglie» (Samuel Johnson, nel 1775) oggi si può dire che il moralismo è la via di fuga degli inetti e degli irresponsabili. Poiché traduce la sfida dettata dall’orizzonte del presente nell’ossessiva ricerca di “colpe” a prescindere. Un esercizio di sublimazione e di esorcizzazione dell’angoscia: nulla di meno, nient’altro di più. Un «paranoico colpevolismo» (Carmelo Palma) che azzera qualsiasi ragionamento, evocando, ancora una volta, patiboli virtuali e mediatici sui quali sacrificare non tanto cose e persone quanto immagini preconcette e qualunquiste di esse. L’altro volto, il secondo, è quello del ritorno degli ideologismi del “benealtrismo”. Per arrestare la pandemia andrebbe fermata l’intera società. Tutto il resto sarebbe solo un vacuo palliativo. Si tratta di quella variante pseudo-igienista, compiaciutamente apocalittica, basata su una “visione del mondo” totalizzante, che ha sostituito alla critica del potere il potere della critica fine a sé. Un esercizio narcisistico, in buona sostanza, che evoca scenari tanto colossali quanto grossolani. E che rafforza, semmai, il senso dell’incertezza e poi dell’impotenza collettiva. Pertanto un viatico all’auto-annichilimento nel vuoto della vera decisione politica. Anche in questo caso la vera radice è la fuga dall’onerosa ma indispensabile responsabilità del governo dei grandi margini di vulnerabilità per la delicata situazione che stiamo vivendo. Una responsabilità che può essere assolta solo se il decision making politico ed istituzionale, oggi assai erratico, si incontra con una consapevolezza sociale diffusa, che fatica tuttavia a diventare forza di indirizzo comune.
Claudio Vercelli
(30 agosto 2020)