Comunità, l’importanza
di ripartire

Il nostro Paese è riaperto e riemergente da tempo, ma ancora visibilmente immerso nell’incertezza e in contraddizioni forse inevitabili, di fronte a un virus che affievolisce la sua mortalità ma continua a diffondersi e accentua il suo carattere di pertinacia, di durata nel tempo. Quale sarà la situazione nei prossimi mesi è difficile dirlo; certo problematica e fortemente a rischio, dopo la inderogabile riapertura delle scuole e con la ripresa del “normale” ciclo di attività dopo l’estate (normale tra virgolette, perché col Covid-19 in circolazione ormai niente è più davvero normale): attività più intense significano contagio più probabile, per le ragioni che da mesi ormai ci sono note.
Le Comunità ebraiche italiane (e l’UCEI in testa) hanno sin qui avuto un atteggiamento esemplare, improntato al rigoroso e oculato rispetto delle norme di prevenzione da un lato e alla versatilità tecnologica unita all’impegno culturale riversati in innumerevoli iniziative online dall’altro.
Di fronte alla già avanzata ancorché claudicante ripartenza della società italiana e alla probabilmente imminente riapertura dei luoghi della cultura, esse – che ne sono parte assai minoritaria ma assai significativa – non possono a questo punto non porsi il problema di una ripresa delle attività e non affrontare passi meditati verso una normalizzazione della loro vita sociale e culturale interna. È una scelta problematica, ma indispensabile per alcune precise ragioni.
Innanzitutto, in un mondo che lentamente si riprende e ricomincia con prudenza (talvolta purtroppo con dissennatezza) a muoversi, l’ebraismo italiano non può restare fermo; deve realisticamente e in modo circospetto mantenere un rapporto attivo e aperto con la realtà circostante, se vuole conservare il proprio ruolo di minoranza viva e propositiva. Ma è soprattutto per la propria vita e la propria salute interne che le istituzioni ebraiche devono uscire dal lockdown organizzativo al quale sono state costrette, riprendere progressivamente un continuo e costruttivo rapporto dal vivo con i loro iscritti, che ormai da mesi, come tutti gli italiani, non sono più in lockdown. Il rischio altrimenti è quello della lenta disaffezione di una parte crescente degli ebrei italiani alla loro Comunità, quello del progressivo distacco da una vita comunitaria di fatto inesistente. Vale a dire la ripresa e l’accelerazione della tendenza già in atto prima della pandemia, un andamento che paradossalmente proprio l’emergenza-Covid aveva arrestato e addirittura invertito.
Come intraprendere passi per la progressiva ripresa della normalità? Non sarà facile e occorrerà grande prudenza, ma anche una buona dose di coraggio. Da un lato credo si debba procedere a una riapertura al pubblico (parziale, graduale, sorvegliata e realizzata con gli adeguati distanziamenti) degli spazi sociali chiusi nella fase del lockdown e alla ripresa dal vivo di iniziative comuni di carattere culturale e ricreativo; gli ebrei italiani hanno bisogno (un bisogno sociale, culturale identitario, forse persino fisico) di ritrovarsi, di passare – finalmente dopo tanto tempo – qualche serata davvero l’uno vicino all’altro. Laddove la riapertura dei locali provvisoriamente abbandonati fosse davvero proibitiva, si potrebbe tentare di organizzare, almeno finché la stagione assiste, iniziative all’aperto. Dall’altro lato, per rendere realizzabile un impiego limitato e sicuro degli ambienti “riconquistati”, sarà bene continuare a svolgere periodicamente attività a distanza per via informatica. Una terza via di ripresa aggregante della vita comunitaria è certo costituita dai social (già felicemente nati, sviluppati e impiegati durante la recente fase di chiusura) e anche dalla vecchia, cara pagina scritta. Sarebbe importante stare più vicini agli iscritti attraverso l’invio di un periodico resoconto generale – certo più frequente delle annuali assemblee – che faccia il punto sulle situazioni e sui problemi della Comunità, nonché sulle strategie messe in atto per risolverli e sull’elaborazione di nuovi progetti: cioè una comunicazione obiettiva delle linee guida seguite dall’insieme dei suoi amministratori.
Solo una progressiva riapertura e una maggiore comunicazione con la concreta base comunitaria potranno far avvertire la Comunità non semplicemente come luogo istituzionale ma soprattutto come casa “comune” dei suoi iscritti, evitando di disperdere il bel senso di solidarietà raggiunto durante l’isolamento dei mesi scorsi e invertendo la tendenza all’allontanamento che si coglieva prima della pandemia.
Per il nostro stesso futuro e con tutte le attenzioni di questo mondo è dunque l’ora di prendere coraggio e ripartire. La protezione è fondamentale; l’arroccamento è pericoloso.
David Sorani

(1 settembre 2020)