Periscopio – Gite ad Auschwitz

Fare opere di narrativa sulla Shoah, com’è noto, significa inoltrarsi su un terreno estremamente delicato, in quanto l’immensità dell’orrore evocato impone di andare coi piedi di piombo. Molti, troppi sono i rischi che incombono (banalizzazione della tragedia, offesa al ricordo dei morti e alla sensibilità dei sopravvissuti, profanazione della memoria ecc.), e che consiglierebbero di scegliere altri temi.
Da tempo, com’è noto, è in corso un vivace dibattito sulla nascita e il consolidamento di una vera e proprio “teologia della Shoah”, qualcosa da alcuni denunciata come un deriva pericolosa. Se la Shoah viene ‘sacralizzata, se diventa una sorta di religione, o di “contro-religione”, addentrarcisi significa penetrare in qualcosa di simile a un tempio, a una cattedrale. E, chi lo fa, non dovrebbe andare a curiosare, ma dovrebbe essere mosso da un sentimento, in qualche modo, di fede, sia pure una fede all’incontrario, nella “morte di Dio”, o nel suo silenzio.
D’altra parte, si può forse teorizzare un vero e proprio divieto morale di fare narrativa su tale argomento? Può, l’idea dell’unicità della Shoah, portare a considerarla anche l’unico territorio interdetto all’interpretazione artistica? Difficile dire qualcosa del genere. Tutte le forme di arte, da sempre, hanno avuto nel dolore, nella morte, la prima fonte di ispirazione. Tutta la narrativa universale, tutta la musica, tutta la pittura, tutto il teatro stanno a confermarlo. Il principe Siddharta, prima di uscire dalla sua prigione dorata, e conoscere la morte e la sofferenza, certamente non conosceva neanche l’arte. A che gli sarebbe servita?
Ma, se si può narrare la Shoah, ci sono dei limiti, dei parametri a cui tale narrativa deve attenersi? O il racconto può piegare anche verso il beffardo, sarcastico, il grottesco? Si può arrivare, addirittura, a ridere della Shoah? Domanda scandalosa, certo, e io sono il primo a richiedere, su tale terreno, il massimo della cautela. Consapevole, però, che il riso è la prima forma di vitalità, di energia creativa, e che è soprattutto la sua negazione a generare l’abbrutimento e l’annichilimento dell’uomo.
Questa premessa per segnalare la pubblicazione di un romanzo di notevole originalità e di grande coraggio, nel quale la tragicità e l’angoscia del tema trattato si intrecciano con una scrittura abnorme e dissacrante, fatta di continui paradossi e capovolgimenti di senso: Gite ad Auschwitz, di Emanule Calò, che conosciamo e apprezziamo come acuto e assiduo analista (non ancora, però, come narratore) sulle colonne di questo giornale (D&M Blanco editore).
Difficile sintetizzare la trama dell’opera, che, fin dal titolo (tratto da una battuta attribuita al gerarca Höss: “stiamo svuotando l’Europa dagli ebrei, ma i loro vicini di casa pensano che… vadano in gita di piacere… Penseranno forse che ad Auschwitz si vada in gita?”), si presenta spiazzante, urticante e sorprendente.
Seguendo il racconto, il lettore si accorge di non essere entrato in un tempio o in una cattedrale, ma piuttosto in un teatro dell’assurdo, in cui la crudeltà e il sadismo si intrecciano con la più assoluta insensatezza. I vari capitoli del libro, dai titoli suggestivi, accattivanti e inquietanti (Come una giornata iniziata male possa, invece, finire bene; La rabbina supplente; Messaggi in bottiglia ecc.), pur collegati tra loro, appaiono come altrettanti racconti autonomi (ognuno dei quali pare dilatarsi e penetrare in qualcuno degli altri), il cui principale filo conduttore pare essere quello del controverso rapporto tra realtà e fantasia. Può essere vero quello che è narrato, anche se appare senza senso? E come può apparire impossibile che l’insensatezza divenga realtà, alla luce di ciò che è accaduto? Ma cosa è la realtà, cosa vuol dire che una cosa è “vera”?
Scopo del libro non è certamente quello di fare ridere, sia pure di un riso amaro, ma piuttosto, forse, di scuotere il lettore dalle sue comode presunzioni di avere ‘capito’ qualcosa. Perché è davvero difficile capire. Turba, certamente, vedere descritto il modo di ragionare dei nazisti, nel quale elementi di apparente razionalità si intrecciano con ragionamenti folli (“noi non abbiamo bisogno di giornali, perché sappiamo già quello che accadrà”), in un groviglio, certamente, disturbante, ma che non manca di esercitare una sua oscura malia.
Un libro la cui lettura mi sento senz’altro di consigliare, ma solo a lettori adulti e maturi, che si siano già adeguatamente misurati col problema della differenza tra il bene e il male, e tra il vero e il falso. E che abbiano voglia di confrontarsi con delle domande morali, esistenziali e filosofiche dalle difficili risposte.

Francesco Lucrezi