Letture facoltative
La guerra di Bobby

Esattamente trentotto anni fa, il 3 settembre 1972, a Reykjavík terminava il campionato del mondo di scacchi tra il campione sovietico Boris Spassky e lo sfidante, l’americano Bobby Fischer. In un anonimo palazzetto di cemento in Islanda si disputa quello che diventerà presto conosciuto come “l’incontro del secolo”. David Edmonds e John Eidinow nel volume Bobby Fischer va alla guerra (Garzanti) raccontano lo svolgimento appassionante delle partite, che si inseriscono nel contesto della guerra fredda e portano agli estremi la personalità dei protagonisti. Siamo negli anni di Nixon, Kissinger e Breznev, e per la prima volta dopo oltre due decenni il campionato si gioca non tra due sovietici, indiscussi maestri degli scacchi, ma tra un sovietico e un americano. Il problema è che entrambi sono personaggi scomodi: Spassky è restio a farsi pedina di un regime che sugli scacchi investe un capitale di credibilità dentro e fuori la dittatura socialista; Fischer, che abbraccia le più volgari teorie cospirazioniste, è antisovietico fino all’ossessione tanto che avrà buon gioco Kissinger a motivarlo alla “guerra contro i rossi” con una storica telefonata. Leggere i nomi dei protagonisti degli scacchi di quegli anni – e del libro – è peraltro quasi come sfogliare un album di famiglia: Fred Cramer, Chester Fox, Victor Jackovic, Don Schultz gli americani; Lev Abramov, Jurij Averbakh, Michail Beilin, Michail Botvinnik, Efim Geller, Michail Tal’, Aleksandr Yakovlev i sovietici. Ma è Fischer, ebreo per nascita e tra i massimi scacchisti di ogni tempo, a tenere la scena non solo davanti ai sessantaquattro quadrati bianchi e neri. Paranoia e misoginia si saldano all’ossessione anticomunista e, più avanti, anche antiamericana (l’11 settembre 2001, da un’emittente radio filippina, grida “morte agli Usa!”). Non stupisce allora il violento antisemitismo di Fischer, che all’ammirazione dichiarata nei confronti di Hitler aggiunge, nel 2005, la paura che gli Stati Uniti cadano “nelle mani degli ebrei”. La guerra di Bobby contro tutti era ormai diventata parodia di se stessa.

Giorgio Berruto