Machshevet Israel
Spinoza-renaissance

A metà agosto, sull’inserto letterario di un quotidiano, il filosofo di ascendenza agambeniana Emanuele Coccia ha ragionato sulla nuova fioritura di libri su Spinoza (“Tutti pazzi per Baruch”) chiedendosi infine se, per caso, stiamo diventando tutti panteisti. Ora, l’idea che il pensiero dell’ebreo olandese sia equivalente a panteismo fungendone da sinonimo non è affatto nuova. Già alla fine del XVIII secolo l’aggettivo ‘spinoziano’ per dire ‘panteista’ era usato come un insulto dai proto-romantici alla Jacobi contro Moses Mendelssohn e il suo amico Gotthold Ephraim Lessing, ma aveva il senso di un’accusa di ateismo più che di pan- o poli-teismo. Paradossalmente, divenuta pubblica, la querelle sancì una Spinoza-renaissance proprio tra i romantici dei decenni successivi, ad esempio con Schleiermacher. Alla fine del XIX secolo anche Hermann Cohen lanciò il suo attacco contro lo scomunicato di Amsterdam accusandolo di aver sganciato la fede (ebraica) dall’ambito della conoscenza e averla ridotta a mera obbedienza pratica; e ben presto Spinoza tornò al centro del pensiero ebraico persino con l’onore dell’epiteto di proto-sionista, poi ripreso da Emil Fackenheim. Ma la substantia dell’Ethica spinoziana è vero panteismo?
Con tutti gli spinozisti in circolazione, posso sottrarmi in pace dal fornire una risposta. Mi limito indirettamente a una definizione di panteismo, che in realtà prendo pari pari dal presocratico Eraclito: “Il divino è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame: e si muta come il fuoco quando unito agli aromi prende il nome del piacere che a ciascuno è proprio” (Frammento 32, edizione Diano-Serra). Sempre Hermann Cohen, citando un passo dal Trattato teologico-politico in cui si afferma che la sapienza divina è contenuta in tutte le cose e in tutte le cose si manifesta, sosteneva trattarsi di affermazioni cariche di “tutta l’ambiguità di questo panteismo insincero e della critica biblica da esso ispirata”. Dove ‘insincero’, nel linguaggio coheniano, significa semplicemente contraddittorio. Forse qui sta il punto, almeno per noi: le epoche intellettualmente confuse ed eclettiche, come la nostra, si rispecchiano nell’ambivalenza di Spinoza che trovano affine a se stesse e lo amano. La stessa parola ‘panteismo’ è un passepartout, particolarmente adatta a una temperie culturale segnata dall’everything goes.
Ma nel pensiero ebraico il termine non ha solo un’accezione negativa e non fa necessariamente rima con politeismo; evoca piuttosto il suo contrario, il monismo spinoziano per l’appunto. E in nessun autore ciò è più evidente che in Avraham Itzchaq Hakohen Kook (1865-1935), poeta e mistico nonché primo rabbino capo ashkenazita della terra di Israele all’epoca del Mandato Britannico. Nell’opera Iqve ha-tzon, del 1906, rav Kook giustifica la scomunica inflitta all’israelita olandese e al contempo ne esalta la forza ammirevole capace di infondere nella sua anima “la nozione di unità divina”. Sebbene in forma frammentaria e distorta, Spinoza ha una giusta intuizione e mira a riconoscere che “l’universo altro non è che una manifestazione del Divino, dal momento che nulla di realmente esistente sussiste all’infuori di Lui” (così nell’opera Orot ha-qodesh). Ecco qui espresso un pensiero quintessenzialmente qabbalistico: nessun luogo è privo di Lui, che a orecchi non abituati alla dialettica o alla mistica suona come un’espressione di puro panteismo. Ma il pensiero di rav Kook è strutturalmente un pensiero dialettico, almeno nel senso evocato da Eraclito, capace di far interagire monoteismo e panteismo; o, come altri preferisce specificare, è panenteismo (per chi non lo ricordasse, il panteista dice: tutto è Dio, mentre il panenteista dice: tutto è in Dio). Nel solco del chassidismo di Shneur Zalman di Liadi – autore amato e commentato da rav Adin Steinsaltz – rav Kook combinava fede nella trascendenza e certezza dell’immanenza divina nella storia di Israele e il suo panenteismo era una sintesi di monoteismo razionale e panteismo mistico. Se diventa sterile e desolato, secondo quest’influente pensatore del giudaismo, il monoteismo rischia di sconfinare nel nichilistico nirvana di certi buddhisti. Salvare il rapporto del Divino con il mondo, d’altra parte, non significa certo deificare il mondano o l’umano. Occorre dunque distinguere e articolare: esistono diversi panteismi, esiste un’ateismo buono e uno cattivo, esiste una profanazione redimibile e una irredimibile, e saper discernere tra le due è chazon, è visione profetica o meglio mistica. Anche gli antichi greci e romani credevano che esistesse un politeismo accettabile (facente capo a Zeus/Giove) e uno inaccettabile (à la Luperco, violento e irrazionale, non a caso associato al dio greco Pan) e il discrimine tra i due è la moralità. Nella dottrina rabbinica dei noachidi l’idolatria non è pensata come politeismo o panteismo ma come immoralità e non si fa obbligo ai non ebrei di abbracciare ‘in positivo’ l’idea ebraica di Dio. Il problema della nostra epoca è l’incapacità di ponderare le differenze. Non siamo tutti panteisti, rischiamo solo di essere tutti omologati. Che davvero ci serva una nuova Spinoza-renaissance?

Massimo Giuliani, Università di Trento