No Mask

Tra le recenti manifestazioni svoltesi in Europa e negli Stati Uniti, contro le restrizioni “illiberali” che i governi avrebbero posto ai diritti collettivi a causa della pandemia, quella che forse ha colpito di più, lasciando il segno, si è tenuta a Berlino una settimana fa. Non è solo per via del numero delle persone che si sono assembrate e hanno tentato di sfilare senza il permesso delle autorità, bensì per la composizione, estremamente eterogenea, di personaggi, stili e motivazioni. Non solo di ordine politico ma anche culturale e civile. Pur con un chiaro cappello politico, quella neofascista. Il tema del rigetto delle norme che impongono dei vincoli ad alcuni aspetti delle libertà personali – a partire da quelle di movimento e, in immediato riflesso, di relazione interpersonale – è infatti perlopiù cavalcato dai movimenti della destra radicale. In una sorta di specchio capovolto rispetto al passato, quando invece queste ultime sembravano semmai identificarsi con il principio di autorità (quindi con lo Stato, che più e meglio lo doveva rappresentare), oggi invece rivendicano l’insubordinazione individuale contro poteri dipinti non solo come estranei alla vita delle persone comuni ma anche ad esse ostili. In immediato riflesso, quindi, manipolatori e falsificatori dell’esistenza delle società. La nuova identità politica dei radicalismo rimanda ancora una volta al principio della comunità di identici (l’unione tra omologhi, che condividono le medesime tradizioni e la stessa terra, quindi l’appartenenza etnica) ma che ora si oppone autonomamente, dal basso, allo sradicamento che il centralismo eserciterebbe ferocemente contro i territori. In tale modo, un patchwork di sigle, gruppi, partiti minori, associazioni e quant’altro possono trovare un’agenda sulla quale convergere, pur continuando a coltivare antagonismi e competizioni interne per piccole e capricciose primazie. Tradizionalmente, il radicalismo di destra postbellico ha rappresentato il trittico che unisce identità ad autorità e sovranità. Enfatizzando inoltre la gerarchia “naturale”, che porrebbe alcuni individui, superiori per interna costituzione, al di sopra della parte restante dell’umanità. Oggi – invece – si ricolloca nello spazio politico e culturale, mantenendo il rimando all’identità (di ceppo, di stirpe, di etnia, di razza), al pari di un feticcio indiscutibile, ma legandolo alle presunte capacità che le comunità territoriali di base riuscirebbero ad esprimere nel momento in cui si mettono in lotta contro i giganti della finanza, le tecnostrutture, l’«eurocrazia» e così via. Tutti protagonisti, questi ultimi, di un gigantesco esercizio di espropriazione delle risorse, delle speranze e dei bisogni, a danno del «popolo». Una forza coagulante è lo scetticismo verso tutto quanto venga bollato come espressione di un’interpretazione “ufficiale” (quindi collusa con i “poteri forti”). La scienza, a partire dalla medicina allopatica, viene perlopiù inscritta in questo campo: sarebbe la manifestazione di credenze tanto diffuse quanto infondate, la cui reale ragione risiederebbe nel tutelare gli inconfessabili interessi delle grandi multinazionali della farmacologia. Opporsi alle misure contro la pandemia, quindi, oltre ad essere un’esplicita scelta politica di indipendenza, esprimerebbe una consapevolezza profonda, alternativa a quella imposta dai regimi democratici attraverso le loro norme e le conoscenze (esse stesse denunciate come artefatte) sulle quali fanno affidamento per uno sviluppo sociale orientato secondo gli interessi di piccoli gruppi d’interesse. La contrapposizione tra una certa idea di «natura» (intesa come un patrimonio ancestrale, profondo, immodificabile, nella quale si riconoscerebbero le donne e gli uomini autentici, tali poiché consapevoli di sé e dei loro legami reciproci) e l’artificiosità delle società moderne, basate invece sulla manipolazione di cose e persone a favore del solo «profitto», non è una novità. Per molti aspetti, è parte dell’armamentario della destra estrema, dalla seconda metà dell’Ottocento in poi. Si ripropone oggi, dinanzi alla grande agenda delle trasformazioni che il SARS-CoV-2 non sta facendo altro che accelerare, a fronte dello spaesamento dei molti. Cerca di catturarne lo smarrimento, offrendogli rifugio in una sorta di contro-realtà, basata sul rifiuto dell’evidenza, tanto più dal momento che il cambiamento repentino, nel momento in cui si verifica, sa garantire ben poche consolazioni a quei molti che se ne sentono in qualche modo vittime. Non stupisce, quindi, che alla manifestazione berlinese, in una folla dove pur spiccavano apertamente gli appartenenti dell’estrema destra, si accompagnassero ad essi, quasi tutti rigorosamente privi di mascherina protettiva, personaggi e gruppetti stravaganti, accomunati tuttavia dalla logica del rifiuto di ogni regola che fosse intesa come imposizione. Tra di essi, anche quanti hanno dichiarato di ispirarsi a “pratiche naturali”, ossia olistiche, omeopatiche e allo stesso veganesimo come ispirazione di vita. Va da sé che il rifarsi a ciascuno di questi convincimenti non sia, di per sé, un segno di distinzione politica. Tuttavia, lo diventerebbe per coloro che dovessero adottare, anche solo implicitamente, l’ideologia naturalista che era alla radice del nazismo. Quella, per intenderci, che all’artificialità dei legami sociali, alla denuncia di una «borghesia» predatoria, all’evocazione ossessiva di complotti, opponeva – allora come oggi – la tragica illusione di un mondo purificato dalle presenze inquinanti. Di cose e di uomini. Gli ebrei tra questi, per intenderci. Il discorso è tanto lungo quanto complesso. Ma va fatto poiché nella menzognera “libertà” di chi urla il rifiuto della realtà, si cela qualcosa di potenzialmente maligno. Per nulla inedito.

Claudio Vercelli