Controvento
L’arrivo del vaccino

Trump non ha mentito. La probabilità che entro fine anno – e forse prima – un vaccino per il Covid 19 sia in arrivo, c’è ed è molto seria. Si tratta di un progetto sviluppato nei laboratori dell’IRBM di Pomezia in collaborazione con lo Jenner Institute, uno dei più prestigiosi centri di vaccinologia al mondo, presso l’Università di Oxford. Le attività di produzione, distribuzione e commercializzazione sono state rilevate da uno dei colossi farmaceutici mondiali, l’anglosvedese AstroZeneca. Due motivi di orgoglio per chi scrive: è un progetto italiano, a capo del quale ci sono due donne: Sarah Gilbert, che dirige lo Jenner Institute, e Stefania Di Marco, a capo della Advent Team del Gruppo IRBM. Il vaccino è in avanzata fase 3, ovvero l’ultima del percorso di sperimentazione, quella sugli umani. Sono 40mila le persone testate con il vaccino in Inghilterra, negli Stati Uniti, in USA, in Brasile e in Sudafrica. “Paesi scelti perché sono tra quelli colpiti più duramente dall’epidemia, e quindi i risultati sono più credibili” spiega Pietro Di Lorenzo, presidente e amministratore delegato del gruppo IRBM. Ora stanno partendo gli ultimi test in Perù e Russia. I risultati cominceranno ad arrivare entro fine ottobre, ma intanto la produzione è già cominciata, in USA, India e Germania e ovviamente in Italia. Il ministro della Salute Roberto Speranza (nomen omen) ha firmato qualche giorno fa un protocollo d’intesa con i ministri di Francia, Germania e Olanda, che prevede l’acquisto di 400 milioni di dosi, di cui 70 milioni per l’Italia. Trump se ne è aggiudicate 300 milioni di dosi.
Ma come è possibile che questo vaccino sia stato sviluppato così rapidamente, superando quelli di laboratori ben più ricchi in Cina, America, Israele, Giappone?
“Da 18 anni lo Jenner Institute studia la famiglia dei coronavirus” spiega Di Lorenzo. “E per questo ha subito potuto testare, in fase 2 di sperimentazione in Arabia Saudita, un vaccino per il coronavirus della MERS,molto simile al SARS-CoV-2. Questo ha consentito a Sarah Gilbert e al suo gruppo di sintetizzare in un paio di settimane il gene della proteina spike del Covid 19 (ovvero non il virus stesso, ma una porzione sintetica e innocua del suo genoma), non appena i cinesi nei primi giorni di gennaio hanno isolato e sequenziato il virus”.
Ma come iniettarlo nell’organismo umano in modo innocuo in modo da pre-attivare il sistema immunitario che non riconosce il Covid 19, non avendolo mai incontrato prima?
“Noi dell’IRMB disponiamo di un formidabile cavallo di Troia- spiega Di Lorenzo. È l’adenovirus, il virus dei banali raffreddori, depotenziato affinché non possa replicarsi nell’organismo. Questa piattaforma che abbiamo realizzato sette anni fa grazie al genio di Riccardo Cortese, biologo molecolare di fama internazionale e nostro partner, ci ha consentito di realizzare il vaccino anti Ebola. Caricato al suo interno con la proteina spike sintetizzata e depotenziata, l’adenovirus consente di far entrare il gene della proteina spike nell’organismo umano e attivare il sistema immunitario, in modo che qualora in futuro si dovesse contrarre la malattia, ci sarebbero pronti gli anticorpi per contrastarla”.
Un vaccino di sapore omerico, che ha consentito di tagliare drasticamente i tempi: poiché sia la piattaforma dell’adenovirus che il gene della proteina di coronavirus sono già stati approvati, rispettivamente nel vaccino contro l’Ebola e in quello contro la MERS, ai ricercatori è stato consentito di saltare le fasi 1 e 2 della sperimentazione umana e partire direttamente con la fase 3.
Non c’è il rischio che la fretta di arrivare all’obiettivo faccia sottovalutare i rischi?
“Nessuno di noi , e tantomeno un colosso come AstroZeneca, metterebbe a rischio il proprio nome, il proprio capitale e soprattutto la salvaguardia della salute collettiva, se non ci fosse la sicurezza della efficacia e della totale innocuità del vaccino” afferma tranquillo Di Lorenzo. “E comunque, non abbiamo abbreviato nessun tempo scientifico. Ciò che è stato ridotto sono i tempi morti della burocrazia, perché di fronte ai pericoli della pandemia tutti si sono mobilitati. Certo, finché non arriveranno i risultati della Fase 3 non c’è nessuna certezza: per ora stiamo lavorando a nostro rischio, ma siamo convinti di avere in mano un ottimo prodotto, che, tra l’altro, potrà in futuro essere rapidamente attualizzato sia per altri coronavirus, sia per il SARS-CoV-2 se dovesse mutare”.
De Lorenzo è uno che di scommesse e di rischi calcolati se ne intende, come testimonia la storia della sua azienda, un piccolo miracolo italiano. I laboratori della IRBM facevano parte della rete produttiva della Merck in Italia, ma nel 2009, dopo la fusione con la Schering Plough, la multinazionale farmaceutica americana decise di chiudere le attività italiane, scorporando solo la struttura di Pomezia, per motivi di immagine e perché in quei laboratori l’anno precedente era stato scoperto l’Isentress, il farmaco più innovativo per l’AIDS. Di Lorenzo, che allora era un consulente della Merck, fu incaricato di cercare una cordata di industriali italiani interessati a rilevare il Centro, ma senza successo. Decise allora di impegnarsi in prima persona per tenere in vita quel fiore all’occhiello della ricerca farmaceutica italiana, concordando con i 180 ricercatori e i sindacati un drastico progetto di ridimensionamento, in vista però di un graduale ritorno alla produttività piena. Una scommessa che ha avuto successo: dai 25 ricercatori assunti subito nel 2009, la IRBM in dieci anni è tornata a impiegarne, tra interni e consulenti, 250, di cui i due terzi sono donne; collabora con centri di ricerca e Università in tutto il mondo, ed è un modello di gestione in un settore difficile come quello farmaceutico. Oggi è specializzata in progetti di ricerca integrati nel campo chimico farmaceutico per l’identificazione di nuovi agenti terapeutici sia di origine chimica che biologica e nella implementazione di una libreria europea di composti chimici, molecole che non hanno trovato un preciso utilizzo, ma vengono catalogate e rese disponibili per la ricerca nazionale. Uno straordinario e prezioso archivio per costruire il quale Di Lorenzo è impegnato da anni, perché proprio dalle molecole “orfane” possono scaturire importanti risultati terapeutici. E vanno quindi salvate.

Viviana Kasam