Scholem-Benjamin,
amicizia e diversità

Anche questa estate così diversa, così inquieta è stata tempo di letture e di riletture. Molte segnalazioni interessanti ci sono giunte da Moked e da Pagine Ebraiche. Ne aggiungo oggi una tratta dagli scaffali della mia biblioteca. Walter Benjamin. Storia di un’amicizia di Gershom Scholem, uscito in Germania nel 1975 e pubblicato in Italia nel 1992 da Adelphi nella bella traduzione di Emilio Castellani e Carlo Alberto Bonadies, è una testimonianza viva, appassionante del profondo legame spirituale tra i due grandi intellettuali ebrei del Novecento. La vicenda della lunga e salda amicizia tra lo studioso della Kabbalah e il critico/filosofo del linguaggio e della storia non è solo un viaggio nelle loro biografie diverse ma fittamente intrecciate, è anche uno squarcio illuminante sulla multiforme dimensione del pensiero ebraico novecentesco e più in generale sui primi quarant’anni del secolo scorso, con le sue innovatrici visioni artistiche, le sue tensioni ideologiche, i suoi drammi politici e sociali annunciatori della tragedia del secondo conflitto mondiale.
Lo sguardo attento di Scholem, talvolta critico ma sempre mosso da profonda stima affetto e rispetto, è tutto proteso a ricostruire e analizzare – sulla base di precisi ricordi, di diari personali, di un ricchissimo carteggio epistolare – la figura dell’amico, le evoluzioni del suo pensiero, le sue incertezze contraddizioni e crisi ricorrenti, i suoi difficili problemi esistenziali ed economici. Ne esce il racconto intenso di un uomo e di un’epoca, un percorso rivissuto in prima persona dall’autore, che narrando di Benjamin narra anche di sé, di un confronto/incontro ideale tra visioni del mondo vicine e poi sempre più disgiunte destinate però a rimanere vincolate in un colloquio sino alla fine, cioè sino al suicidio del filosofo davanti all’impossibile fuga e al baratro del nazismo.
Questa biografia intellettuale a due ci porta dunque a seguire lo sviluppo della ineguale ricerca benjaminiana, tutta tesa inizialmente a una costruzione sistematica che nel suo sviluppo si disperde però in mille nuove direzioni di pensiero dando luogo a un insieme composito, la cui forza viene non dalla struttura d’insieme ma dalla ricchezza, dalla varietà e dalla genialità degli spunti. Allo stesso modo, la sua lucidità metafisica di indagine sempre più è attratta – a partire dagli anni Trenta – da visioni materialistiche di impronta marxista che Scholem (per quanto socialista radicale prima di aderire al sionismo) giudica con scetticismo perché gli appaiono contrarie ai naturali orientamenti di pensiero dell’amico; eppure la fusione di rigore metafisico e nuova visione dialettico-materialista produce analisi di grande originalità, come le riflessioni sull’ “Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” e le “Tesi di filosofia della storia”. Anche attraverso la caratterizzazione ravvicinata e diacronica del personaggio che Scholem ci offre, insomma, traspare l’aspetto più intrigante dell’intellettuale Walter Benjamin: il suo procedere costante verso interpretazioni originali, personali, creative, che egli riesce a mettere a fuoco tanto negli scritti eminentemente teorici quanto e forse più nei saggi di critica letteraria (magistrali quelli dedicati alle “Affinità elettive” di Goethe, a Proust, a Baudelaire, a Karl Kraus).
L’ebraismo tedesco, la sua centralità nello sviluppo culturale della Germania e dell’Europa nei primi quaranta anni del Novecento costituiscono lo sfondo ideale di un colloquio continuo e aperto, irrinunciabile e determinante per entrambi, in rapporto all’evoluzione intellettuale e politica complessiva del paese. Attraverso la comune propensione per la ricerca, la comune avversione alla prima guerra mondiale e ai facili entusiasmi patriottardi, la comune tendenza all’impegno per la giustizia sociale maturano gli indirizzi differenti dei due studiosi. Scholem, sempre più dedito alla ricerca nel campo dell’ebraismo talmudico – poi nell’universo affascinante ed esegeticamente inesplorato della mistica ebraica, giungerà presto a un sionismo consapevole che lo porterà già nel 1923 all’Aliyah e subito alla carriera accademica nella appena nata Università Ebraica di Gerusalemme. Benjamin, attratto da molteplici indirizzi critico-filosofici, si costruirà un percorso contraddittorio e illuminante (ancorché frustrante per la mancanza di stabilità) caratterizzato dal continuo approfondimento di indagine e da una inquietudine innata che lo porterà dalla Germania alla Svizzera, ai vari e prolungati soggiorni parigini, ancora a Berlino, sino alla fuga dal nazismo di nuovo a Parigi e infine verso la Spagna, un approdo reso impossibile dalla mancanza di documenti per l’espatrio, dalla carenza di risorse economiche, ma soprattutto da un suo atteggiamento di disperazione e di rinuncia interiore, che già altre volte lo aveva condotto sulla soglia del suicidio. Entro questo percorso di ricerca e insoddisfazione maturano capolavori assoluti, come “Strada a senso unico. Scritti 1926-27”, come il saggio sul “Dramma barocco tedesco”, quello sul “Surrealismo. L’ultima istantanea degli intellettuali europei”, quello su “Parigi capitale del secolo XIX”, come le già citate e conclusive “Tesi di filosofia della storia” (Benjamin aveva questo scritto inedito con sé nella camera d’albergo in cui si tolse la vita con la morfina), ove in diciotto densi argomenti, dopo aver distrutto lo storicismo e ogni visione falsamente progressiva del passato, lancia un’immagine dialettica e sociale della storia intrecciando teologia, estetica, politica. In questi anni fervidi e insoddisfatti si intrecciano incontri ricchi di sviluppi intellettuali, come quelli con Bertolt Brecht, con Ernst Bloch, con Theodor Wiesengrund Adorno e l’Istituto di Ricerche Sociali di Francoforte per il quale Benjamin scrisse pagine di notevole rilievo; ma nascono anche fascinazioni intellettuali comuni ai due amici, come quella per le opere di Kafka, originalmente accostate dai due al mondo ebraico della Legge. E’ sempre in questa fase di irregolari e intensi sviluppi che per l’amico Benjamin Scholem prepara il terreno a una nuova prospettiva di vita nella Palestina mandataria. Grazie all’interessamento personale dell’illustre docente di mistica ebraica, già dall’inizio degli anni Trenta l’Università di Gerusalemme era pronta ad accogliere il filosofo nel proprio corpo accademico; lo spirito utopistico ebraico che animava le teorie di Benjamin, il suo profondo interesse per il mondo biblico e per la teologia avrebbero potuto trovare lì un saldo terreno di radicamento, dando finalmente stabilità alla sua posizione di studioso. Ma proprio la stabilità era da lui intrinsecamente rigettata: le difficoltà familiari, le ricerche e gli scritti da completare, l’impossibilità di dedicarsi sistematicamente allo studio dell’ebraico sono altrettante motivazioni (pretesti?) con le quali Benjamin rimanda di continuo la scelta netta, desiderata e assieme temuta, dell’emigrazione. E così, inesorabilmente, dopo l’avvento del nazismo, dopo lo scoppio della guerra e l’occupazione tedesca della Francia il cerchio si chiude intorno a lui come intorno a tanti intellettuali antifascisti ebrei e non. Rispetto ad altri suoi amici esclusi e braccati come lui ma felicemente approdati in America (Hannah Arendt, Adorno), Benjamin è drastico nel non vedere vie d’uscita possibili: a Port Bou, la notte tra il 26 e il 27 settembre 1940, sceglie di chiudere i conti con la sua esistenza. Gershom Scholem, a Gerusalemme, apprenderà solo l’8 novembre, da una lettera della Arendt datata 20 ottobre, la tragica fine dell’amico di una vita.

David Sorani