Le memorie di un ebreo di sinistra

Il mio nome esatto è Amos Michelangelo Luzzatto, figlio di Leone Michele e di Emilia Lina Lattes. La mia famiglia è molto composita. I Luzzatto sono originariamente ebrei veneti, giunti, pare, dalla Lusazia, rintracciabili alla fine del XV secolo fra Venezia, il Friuli e il Veneto orientale. La lapide della tomba sul punto più elevato del cimitero ebraico di Conegliano Veneto appartiene a un Luzzatto e ne presenta lo stemma: un gallo che tiene tre spighe in una zampa, sormontato da una mezzaluna e da tre stelle a cinque punte. Il tutto dovrebbe essere verde su campo bianco. Mi si dice che siano le armi di un Comune tedesco, che forse si chiamava Freihahn. Però, io non ho trovato né il Comune né lo stemma nell’araldica tedesca. A dire il vero, ho cercato molto poco.
Il nostro cognome si scrive Luzzatto o Luzzato, destino comune di analoghi cognomi veneti, ad esempio Boatto o Boato (ma una mia amica, migrata in Piemonte, è diventata Boat e molti la credono per questo di origini inglesi… e marinare). In alcuni testi in lingua tedesca è scritto «Luzatto». In una targa stradale in Israele si legge «Lutzato». I lettori facciano come preferiscono, a me basta che non mi creino complicazioni con i miei documenti di identità.
L’origine del cognome, come ho già detto, sarebbe da ricercare nella regione del Sud-Est della Germania, detta in tedesco «Lausitz», in sorabo (la lingua della popolazione slava originaria, ora diventata minoranza) «Lužica», in latino «Lusatia». Qualcuno, forse uno storico, mi aveva escluso tale ipotesi, sostenendo che non risultavano insediamenti ebraici in quella zona. Quando vi sono andato in gita (o in pellegrinaggio?) con alcuni amici di Berlino, abbiamo parcheggiato, per puro caso, a Lüben (o Lübbenau), la cittadina principale di questa regione agricola, proprio accanto alla targa della strada, che si chiamava «Judengasse». Avevo trovato il «documento»!
Il mio ramo famigliare è vissuto per più di un secolo e mezzo a San Daniele del Friuli, trapiantandosi poi a Trieste alla fine del XVIII secolo. Il mio trisavolo, Samuel David, acronimo ebraico Shadal, si spostò a Padova nel 1829 per insegnare nel neonato Collegio Rabbinico. Suo figlio Isaia, notaio, curatore delle sue opere, fu parnas (responsabile) della locale «Scola tedesca». Due figli di Isaia, gemelli veri e indistinguibili, Leone e Michelangelo, seguirono nella vita strade diverse. Leone non aveva figli e fu un padre per i nipoti: mio padre Leone e Mario, mio zio. Il mio prozio Leone insegnò lettere al liceo a Treviso. Michelangelo invece aveva seguito lo zio Beniamino, fratello di Isaia e medico, direttore della Clinica Medica dell’Università di Palermo. Morto Beniamino, sepolto nel cimitero ebraico di Padova, sua città natale, Michelangelo seguì a Roma l’aiuto dello zio, il patologo professor Marchiafava, e lì sposò Virginia Tagliacozzo, che mi dicono fosse una delle più belle ebree della città: ebbero due figli e una figlia. Leone nacque a Grosseto, dove Michelangelo dirigeva il locale nosocomio, e visse per soli tre mesi in quella città. Mario, futuro direttore dell’Archivio di Stato di Pisa, avrebbe dovuto essere trasferito a Venezia, con sua soddisfazione, dato che «noi siamo veneti», come mi diceva sempre, ma morì di cancro prima di soddisfare questo suo desiderio. La loro sorella Marcella si sarebbe poi sposata con il pittore Salom Gattegno di Salonicco, più tardi direttore della Scuola ebraica di Rodi. Lei, con la suocera e un piccolo di quattro anni, furono gassati ad Auschwitz immediatamente dopo l’arrivo e Alberto, un figlio poco più che adolescente, qualche mese dopo. Le mie cugine Virginia e Lea sono sopravvissute e ci vediamo di tanto in tanto: una abita a Venezia, l’altra a Bruxelles.
Der ewige Jude, ein Wanderer! (L’eterno ebreo, un migratore!)
Mia mamma era una Lattes, prima figlia di Dante Lattes, di formazione rabbinica, scrittore, saggista, divulgatore, educatore ebreo, uno dei primi sionisti italiani, che aveva visto nel sionismo la grande occasione storica di un rinnovamento della cultura ebraica. Era nato a Pitigliano, rocca degli Orsini, deliziosamente ubicata nelle colline ubertose del Grossetano. Il cognome deriva da un toponimo provenzale, da dove gli antenati si erano mossi per andare a Roma: un antenato, Bonnet de Latés, pare sia stato medico alla corte papale. Espulsi dallo Stato della Chiesa, avevano trovato rifugio ospitale immediatamente a nord dei suoi confini. Di famiglia povera, il padre di Dante faceva il sarto, si erano trasferiti molto presto a Livorno e lì aveva studiato sotto la guida del famoso cabalista di origine nordafricana Elia Benamozegh.
Molto presto si era trasferito a Trieste dove aveva lavorato presso la locale Comunità e presso il settimanale «Il Corriere Israelitico», allora diretto da Aronne detto Nino Curiel, di antica famiglia ebraica sefardita triestina e genero del fondatore del giornale, Abram Vita Morpurgo, altro mio trisavolo da parte materna, goriziano e ashkenazita. Era figlio di una Brandenburg triestina, sposata con un Cerf, pare di Ginevra, giunto a Trieste come soldato nelle armate napoleoniche. Aronne Curiel era anche il segretario della locale Comunità. Dotato di spirito pungente, narrava che una volta, a un non ebreo che giurava di esserlo per godere del sussidio della Comunità, aveva fatto la domanda decisiva: «Dove la g’ha la milà ?». E ottenendo la risposta: «La g’ho a casa, sior Nino, ma se la ghe servi, doman ghe la porto…», lo cacciò immediatamente.
Dante Lattes aveva sposato una delle figlie del Curiel, Emma, dalla quale avrebbe avuto due figlie, Lina e Nora, quest’ultima morta di peritonite durante la Prima guerra mondiale. Nel corso dei diciassette anni trascorsi a Trieste, allora il porto principale dell’impero austro-ungarico, Dante Lattes entrò in contatto con la cultura ebraica danubiana e dell’Europa orientale, che nelle terre italiane era allora pressoché sconosciuta, forse (purtroppo) alquanto snobbata.
La famiglia del Curiel, con figli e figlie, generi e nuore, nipoti maschi e femmine, viveva in una casa alquanto patriarcale situata in piazza Santa Caterina da Siena, oggi diventata piazza Silvio Benco, a lato della «Contrada del Corso». Mia nonna Emma, che mi ha fatto da baby sitter e da amica d’infanzia, era triestina dei tempi dell’Austria nel midollo delle sue ossa. Avrebbe continuato a fare i suoi conti in «corone» persino tanti anni dopo, a Tel Aviv; avrebbe sempre chiamato le strade di Trieste con i nomi austriaci, quali via Stadion (via Cesare Battisti), «l’Acquedotto» (viale XX Settembre), Piazza Grande (piazza Unità d’Italia), non sarebbe mai andata a Villa Opicina, ma a Opcina e non avrebbe mai preso il tram, ma «el tranvài». E anche non il taxi, ma «el tassametro». E se mi faceva bere lo squisito sciroppo di lampone, lo chiamava ovviamente «fràmbua».
Quel dolcissimo dialetto, mescolato con parole tedesche e slovene e persino francesi imbastardite, mi è sempre rimasto nel cuore, l’ho sempre sentito «mio», vi ho sempre trovato l’eco della mia infanzia.
Devo dire che i triestini hanno ricambiato questo mio amore, giungendo ad attribuirmi, in tempi recenti, il San Giusto d’Oro, premio dei giornalisti triestini a un compatriota che si sia fatto onore nel corso dell’anno.
Amos Luzzatto – Conta e racconta: memorie di un ebreo di sinistra (Mursia)