Intese con Bahrein ed Emirati,
il nuovo posto d’Israele

Ci sarà anche il Bahrein il 15 settembre a Washington per firmare, assieme agli Emirati Arabi Uniti, uno storico accordo di normalizzazione dei rapporti con Israele. Il piccolo paese del Golfo, molto legato all’Arabia Saudita, ha infatti annunciato di aver raggiunto un’intesa con Gerusalemme per stabilire relazioni diplomatiche complete. L’annuncio dell’accordo, così come accaduto in agosto con il patto Emirati-Israele, è stato dato dalla Casa Bianca, che ha fatto nuovamente da mediatrice. “Un’altra svolta storica oggi! I nostri due GRANDI amici Israele e il Regno del Bahrein si sono accordati per un accordo di pace – il secondo Paese arabo a fare la pace con Israele in 30 giorni!”, il tweet entusiasta del Presidente Usa Donald Trump, candidato al Nobel per la pace proprio grazie a questo vento di normalizzazione dei rapporti che spira in Medio Oriente (nell’immagine, l’annuncio dell’intesa da parte di Trump). Per Israele si tratta di un significativo risultato, ottenuto soprattutto grazie al Primo ministro Benjamin Netanyahu, che volerà a Washington per la firma del 15 settembre. Non con un jet privato come annunciato inizialmente – tra proteste e polemiche – ma con l’aereo che porterà negli Usa il resto della delegazione israeliana e dei giornalisti. In ogni caso, Netanyahu ha salutato l’accordo come parte di una “nuova era di pace” e ha previsto che ne seguiranno altri. Il problema per il capo del governo di Gerusalemme è che il suo viaggio è offuscato dalla crisi sanitaria in Israele: l’esecutivo ha annunciato l’arrivo di un nuovo lockdown a partire da venerdì prossimo a causa dell’alto numero di contagi da coronavirus nel paese (la scorsa settimana si è toccato il record di 4000 positivi in un giorno). Il numero delle vittime causate dal virus è salito a 1108, mentre il numero di pazienti in condizioni critiche è di 513, di cui 139 attaccate ai respiratori. La nuova chiusura dovrebbe durare due settimane con l’applicazione di misure piuttosto restrittive che stanno incontrando la resistenza di alcuni settori. In particolare da parte del mondo religioso sono partite proteste molto evidenti. Fino ad arrivare alle dimissioni dal governo annunciate in queste ore dal ministro per l’Edilizia e presidente del partito haredi Yahadut HaTorah Yaakov Litzman. In una dichiarazione ufficiale, Litzman ha detto che un isolamento durante le solennità ebraiche (Rosh HaShanah, Kippur, Sukkot) “impedirà a centinaia di migliaia di ebrei, di tutti i settori, di pregare nelle sinagoghe”. Con le nuove misure il numero di fedeli che si potrà radunare in sinagoga sarà infatti circoscritto. Per il governo, ad eccezione di Litzman, si tratta di un provvedimento necessario e inevitabile perché la pandemia è un pericolo chiaro e presente nelle vite degli israeliani. Senza la chiusura, sostengono gli esperti, il numero dei contagi non arretrerà. Ma l’economia subirà ulteriori danni: circa 20 miliardi di shekel, secondo alcune previsioni. “Tra cinque o dieci anni, ci mancheranno questi 20 miliardi di shekel quando non avremo i soldi per costruire un ospedale più grande a Beersheba e non ci saranno abbastanza letti negli ospedali e il sistema sanitario farà fatica a salvare vite umane”, sostiene Eyal Leshem, direttore del Centro di Medicina di Viaggio e Malattie Tropicali del Sheba Medical Center.
“La discussione su quale sia il costo di una chiusura sulla vita umana rispetto a misure meno drastiche ed efficaci non c’è – ha dichiarato Leshem al Jerusalem Post – Scrolliamo le spalle e facciamo un cenno con la testa e diciamo: Non ha funzionato niente, quindi dobbiamo andare alla chiusura”. Secondo lo scienziato ciò di cui c’è bisogno è una forte regolamentazione e l’applicazione delle restrizioni sulle riunioni di massa, non che la gente smetta di andare al lavoro. “Se torniamo a metà ottobre con eventi di massa e con tutto come al solito, vedremo un’altra ondata, proprio in concomitanza con l’influenza. Chiuderemo di nuovo a dicembre o a gennaio? Abbiamo altri 20 miliardi o 50 miliardi di shekel da spendere? Questa politica non è sostenibile”.
In questo clima – a cui si aggiungono le consistenti proteste di piazza contro Netanyahu, di scena ogni settimana – l’importanza dei benefici dell’evento di Washington in Israele inevitabilmente rischia di passare in secondo piano. Non che i quotidiani locali non vi dedichino attenzione. Israel Hayom apre ad esempio con il titolo “Due volte più bello”, sottolineando come agli Emirati Arabi si sia unito il Bahrein, mentre Yedioth Ahronoth parla di “Golfo della pace”. Perché l’aggiunta del Bahrein è significativa lo spiega Zvi Barel su Haaretz: “il Bahrein è un pezzo importante della linea di difesa del Golfo Persico contro l’influenza iraniana. Ospita una base della Marina degli Stati Uniti con circa 6.000 membri in servizio, e potrebbe servire come rampa di lancio per gli attacchi contro le minacce terrestri e marittime dall’Iran”. Dunque in chiave anti Teheran, l’unirsi del Bahrein è molto importante per Stati Uniti e Israele. Non solo, il piccolo regno rappresenta un ponte diretto tra Israele e Arabia Saudita. “Il re del Bahrein, che dipende interamente dall’Arabia Saudita, alla quale è collegato attraverso una strada rialzata di 25 chilometri, ha ricevuto una ‘licenza’ saudita per procedere con la normalizzazione, – scrive Barel – ma la stessa Riyadh è ancora in attesa del suo compenso”. Un onorario che dovrebbe comprendere la piena riabilitazione del principe saudita Mohammed bin Salman, uscito un po’ dalla scena internazionale dopo le nubi nere dell’omicidio del giornalista Kashoggi, secondo molti assassinato su mandato dello stesso bin Salman. La normalizzazione dei rapporti con Israele aiuta a rischiare il cielo in Medio Oriente e ad aprire nuove prospettive economiche e non solo. Durante un briefing telefonico con i giornalisti dopo l’annuncio che il Bahrein seguirà gli Emirati Arabi Uniti nella firma di un accordo con Israele, Jared Kushner, Consigliere per il Medio Oriente di Trump, ha sottolineato l’inclusione di clausole in entrambi gli accordi, così come nel piano di pace Trump, che affermano l’impegno di Israele a permettere a tutti i musulmani di visitare e pregare nella moschea di Gerusalemme al-Aqsa. “Questo ridurrà la tensione nel mondo musulmano e permetterà alla gente di separare la questione palestinese dai propri interessi nazionali e dalla propria politica estera, che dovrebbe essere focalizzata sulle proprie priorità interne”.