Particolare e generale
La somma delle minoranze non fa una maggioranza. Una successione di vittime non crea una ragione. Il diritto al risarcimento individuale (o particolare), quando sussiste, non sostituisce i diritti generali, quelli di integrazione. Semmai li integra, con tutte le cautele del caso. Soprattutto, trasformare le battaglie per i diritti civili e di inclusione in un decalogo precettistico, dove si misurano e si pesano, con pedante ossessività, gli accessi alla sfera pubblica, arrivando a stabilire quote e percentuali inderogabili in base alle “appartenenze” (ad un qualche gruppo identitario) è la premessa per disintegrare quella imponderabile ma imprescindibile alchimia delle eguaglianze che riposa nella cittadinanza costituzionale. Tra la miriade di considerazioni possibili, sulla scorta di quali criteri si può giuridicamente definire come soggetto significativo, degno quindi di un trattamento a sé, questo piuttosto che quel “gruppo”? Per integrare, non si rischia allora di discriminare? Uguaglianza non è mai mancanza di distinzione bensì condivisione di pari opportunità sotto la medesima norma, tutelando al medesimo tempo le soggettività. Un processo che si chiama pluralismo. Poiché se invece ragioniamo altrimenti, tra i tanti problemi, già a priori sussiste un ulteriore potenziale equivoco, pieno di conseguenze: quali sono i titoli o i caratteri che apparentano con “certezza” un individuo ad un gruppo? Se una persona si sente parte di una comunità, ma non tutti gliene riconoscono la legittimità di appartenenza, come ci si dovrà comportare al riguardo, posto che in nessun regime democratico si può definire e trattare una persona diversamente – o in deroga – dai diritti di cittadinanza che, per definizione, debbono essere invece intesi come comuni e indivisibili? Un veloce ripasso farebbe bene. Al primo comma dell’articolo 3 della Costituzione, si afferma perentoriamente che: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Al secondo comma, si aggiunge: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Tradotto in parole povere: esiste una differenza marcata tra uguaglianza formale (stabilita e garantita dalle leggi) e sostanziale (effettivamente esistente, nelle relazioni quotidiane). La Repubblica si adopera per trasformare la prima nella seconda attraverso gli strumenti della partecipazione politica. Ma non riconosce in alcun modo trattamento diverso a cittadini distinti in base a criteri di identificazione degli stessi che esulino dalla comune cittadinanza. Altro discorso è coltivare tale diversità come elemento di distinzione culturale, sociale e così via. Si tratta di fatto proprio, esso stesso parte della nozione di pluralismo, non di una pratica che debba segmentare la comune unità giuridica. L’enfasi con la quale una parte della società americana, ed in un moto di subalterno riflesso, anche quella europea, si stanno accodando a indirizzi che invece vanno in senso ben diverso, non segna alcun trionfo dell’integrazione. Piuttosto è il pericoloso suggello della segmentazione della pluralità delle persone in una serie disarmonica e diseguale di isole, parte di un arcipelago dove nessuno comunica con gli altri. Essendo troppo impegnato nel continuare a demarcare le prerogative di se stesso. Di politico – se con ciò si intende il collante che tiene insieme le diversità e media i differenziali di potere, attenuandone l’impatto collettivo – in questo caso c’è semmai il nulla assoluto. La pervicacia con la quale si sta invece assecondando e perseguendo questo indirizzo, introducendo di fatto filtri (linguistici, ma in prospettiva anche comportamentali e poi normativi) destinati a rendere vincolanti nuove condotte e comportamenti sociali, intervenendo per modificarne ed equilibrarne gli indirizzi, è solo un mascheramento ideologico della perdita del senso della realtà. Siamo dinanzi ad uno gioco di specularità tra il “sovranismo” delle collettività intese come una raccolta di mucchi selvaggi, mandrie da blandire e guidare, ed il particolarismo di chi si chiude dentro il recinto dell’identità, scambiandolo per una sorta di rifugio antiatomico. All’infantilismo che si accompagna a certe derive di autorità, dove la sovrapposizione tra finzione e realtà si consuma e si risolve attraverso la prima che si mangia la seconda; alla trasformazione delle società, che si stanno congedando dal modello di produzione industriale massiva, subentrandovi un capitalismo digitale che, almeno per il momento, non si sente in alcun obbligo nei confronti dei territori dai quali sottrae risorse, per utilizzarle in una info-sfera che è presente ovunque, attraverso i nostri mezzi di comunicazione (a partire dagli smartphone che teniamo in tasca) ma anche in nessun luogo, essendo una dimensione virtuale e non geografica; alla crescente emarginazione di interi strati di società, anche di ceto medio, in via di declassamento; alla progressiva consunzione degli strumenti democratici di rappresentanza e mediazione dei conflitti, non si risponde con l’elogio ipertrofico delle «identità» particolaristiche, scambiandole per una piattaforma politica destinata a mutare le società (in meglio). Sovranismo e particolarismo condividono la medesima radice, quella di disintegrare i presupposti imprescindibili dello scambio politico: reciprocità conflittuale, corpi intermedi, intermediazione ma anche razionalità e ragionevolezza. L’uno e l’altro, infatti, si basano sulla duplice nozione di confini e di minaccia: ci chiudiamo nel recinto con i nostri omologhi, fingendo una battaglia di libertà rivolta a tutti, poiché ciò che non è come “noi” è contro di noi. L’inaccettabilità di un tale modo di porsi dinanzi ai fatti, sta anche nella previsione del riscontro a venire, ossia che questa dissanguante battaglia, che obbliga a pronunciarsi non su un processo spontaneo ma su un insieme di vincoli a tratti quasi surreali, non avrà nessun vincitore – ancor meno tra quelli che si illudono di poterne trarre legittimo vantaggio – ma solo molti sconfitti. Poiché sposta il nodo delle diseguaglianze a valle dei processi sociali. Ossia, non affronta in alcun modo la genesi dei differenziali di opportunità, non identifica le vere strozzature che stanno nei modi di produrre ricchezza e nei criteri di accedere ai suoi benefici ma si crogiola in una commistione tra vittimismo, piagnistei e ricatti che si tradurrà, a breve, nel vagito dell’adulto regredito a infante. Ossia, deresponsabilizzato e dipendente. Oppure, chiuso con i suoi pari in una sorta di castello assediato, convinto che lì, nel suo ghetto autoimposto, ci sia l’essenza della “vera esistenza”. Qualcosa che è esattamente nell’animo di quei moderni “padroni del vapore” per i quali c’è solo da guadagnarci dal fingere di dovere rispondere ad un gruppo di individui che si qualificano non per ciò che dovrebbero divenire ma per quanto lagnano di non avere mai ricevuto.
Claudio Vercelli
(13 settembre 2020)