Potrai raccogliere il tuo mosto

La promessa del Signore “concederò alla vostra terra la pioggia…e tu potrai raccogliere il tuo grano, il tuo mosto…” è una promessa di benessere a coloro che osserveranno i Suoi comandamenti. Peculiare è l’elenco dei vari prodotti della terra, indispensabili per la sopravvivenza. Tra questi ricorda il mosto. La promessa è particolare e merita un approfondimento. Anzitutto viene da pensare che l’uva non venisse impiegata “da tavola”. Quindi si può forse ritenere che “mosto” e uva fresca appena raccolta fossero quasi sinonimi. Ma c’è di più. L’uva raccolta, manipolata, stipata in cesti, non durava a lungo, e cominciava “una” fermentazione. La promessa del Signore è di assistere il popolo fedele anche in questa fase complessa, che a quei tempi doveva apparire anche misteriosa. Ma per comprendere bene di cosa stiamo parlando occorre fare una piccola digressione. Come si passa da uva a mosto e dal mosto a vino? L’individuazione del processo viene fatta risalire addirittura a Noé. Ma nella Torà non viene spiegato il passaggio dalla “vigna” al vino. Oggi il procedimento è controllato e, grazie agli studi di Pasteur, ben compreso. Ma fino ad allora l’esito della fermentazione alcoolica era sempre incerto. I lieviti presenti nel terreno, con le piogge schizzavano sugli acini di uva e, quando questa veniva spremuta, rilasciando i succhi interni alla bacca, i lieviti posati sulla buccia cominciano il loro “lavoro” trasformando il dolce succo di uva in mosto ribollente e poi, al termine, in vino. Nel clima di Israele le piogge per schizzare i lieviti sugli acini sono assenti. È quindi probabile che i lieviti arrivino sulla buccia degli acini insieme alla polvere sollevata dal vento, ma è sempre un processo incerto. Inoltre anche l’assortimento dei vari cloni di lieviti è un altro elemento di incertezza. Oggi il processo di produzione del vino inizia con la “sterilizzazione” del mosto mediante l’anidride solforosa per eliminare tutti i microorganismi (lieviti diversi, ma anche altri): dopodiché l’anidride solforosa viene fatta evaporare lasciando “muto” il mosto. A questo punto si inoculano nel mosto lieviti selezionati, di produzione industriale, e la fermentazione parte senza problemi e con risultati sicuri e buoni. Ma la scoperta e lo sviluppo della tecnologia enologica devono essere stati lunghi e laboriosi. Una leggenda persiana riferisce che Jamsud, re di Persia era un grande ammiratore dell’uva di Hebron (che era ritenuta discendente diretta di quella di Noé). Pertanto si fece portare un grande quantitativo di uva dalla Città dei Patriarchi. Tuttavia quando l’uva arrivò al termine del viaggio, era danneggiata e il processo di fermentazione iniziato. Il re, che non conosceva il vino, né il processo della sua fabbricazione, ordinò di portare l’uva ed il suo succo in cantina apponendovi l’avviso “veleno”. Poco dopo, il re ebbe con la moglie una lite così aspra che questa decise di porre fine ai suoi giorni. Scesa in cantina pensò di dare esecuzione al suo triste progetto servendosi dei grossi contenitori etichettati “veleno”. Bevve quindi abbondantemente il succo fermentato, con il sorprendente risultato che non solo non pose fine ai suoi giorni, ma la sua disperazione si trasformò in…allegria ! Per questo motivo ancora oggi in persiano il vino si chiama “zeher-e-koosh”, cioè “delizioso veleno”.
È interessante notare che il vino menzionato ripetutamente nella Torà era un prodotto noto e ben definito. Quando veniva usato od offerto al Signore nei sacrifici il vino viene definito “yain” . Lo stesso avviene in altre occasioni cerimoniali nelle quale i protagonisti vogliono celebrare l’evento. Ma quando il Testo si riferisce al dono del Signore presente o futuro (il Signore ti concederà…) allora la Torà parla di “tirosh”, che letteralmente significa mosto. Perché questa differenza (che spesso nella traduzione scompare e diventa, impropriamente, “vino”)? È difficile dare una risposta certa e sensata a questo interrogativo. Un’ipotesi che sembra ragionevole (altri potrebbero ipotizzare un’interpretazione migliore) è che il processo di trasformazione da succo di uva a vino apparisse, agli occhi degli antichi, così misterioso da costituire una grazia speciale concessa dal Signore al suo popolo in premio della fedeltà e dell’osservanza dei suoi precetti. Che la vite producesse uva appariva ovvio e normale molto di più del fatto che l’uva spremuta e forse “rovinata” dallo schiacciamento dei suoi acini, desse origine ad un prodotto di pregio così elevato come il vino. E qui, l’intervento del Signore era critico e fondamentale.
Il prodotto, il vino, è elemento santificatore e portatore di letizia. Il vino è il simbolo della vita e della gioia, Il vino, preferibilmente rosso, è l’elemento fondamentale per la santificazione dello Shabbat. Il vino usato deve essere rigorosamente kasher, che significa coltivato (quando è in Israele) in vigneti dove le norme della Torà vengono scrupolosamente rispettate: quindi durante i primi tre anni dall’impianto è proibito raccogliere i grappoli; ogni sette anni la vite deve essere lasciata a riposo; è proibito far crescere arbusti tra i filari e infine il vino deve essere lavorato unicamente da ebrei praticanti. Nella diaspora è sufficiente che il vino sia lavorato esclusivamente da ebrei osservanti.
Nell’antichità il vino veniva prodotto in grandi quantitativi, perché oltre agli impieghi eduli veniva utilizzato per tingere tessuti e sanificare la casa. Per la sua produzione vi erano almeno tre tipi di presse, solitamente in pietra che prendevano nomi diversi a seconda della loro localizzazione: “yekev” e “gat” erano delle vasche scavate nella roccia, mentre “purà” è il torchio per la spremitura dell’uva. La corretta traduzione di questi tre termini non è facile. Spesso vengono considerati sinonimi, ma probabilmente nascondono qualche differenza che a noi sfugge. “Yekev” sembra sia una vasca di spremitura vicino al vigneto, mentre “gat” è una vasca simile, ma all’interno delle mura della città.
Un altro prodotto derivato dall’uva era l’aceto, che era utilizzato sia come condimento, ma anche come conservante. È interessante che l’aceto (che era vietato a chi aveva fatto il voto di nazireato) è definito “homez” che significa soltanto acido. Ma nell’antichità era forse l’unico “acido” esistente.
Nell’ebraico moderno e tecnico il termine “homez” deve essere definito con un aggettivo che specifichi di quale tipo di acido si tratta. Nell’antichità non ci dovevano essere dubbi: l’”acido” era solo quello derivato dal vino. Ma mentre oggi l’aceto è soprattutto un condimento utilizzato per insaporire certi alimenti, nei tempi antichi, l’aceto (e il sale) erano utilizzati più che per il sapore, come conservanti alimentari (in mancanza di sistemi di refrigerazione): non dimentichiamo, a questo proposito, la strategia dei combattenti di Masada che contrastavano l’approvvigionamento di sale alle legioni romane per cercare di vincerle per fame.
In questo quadro la promessa del Signore di riempire il “dagan”, il granaio, e di dare il mosto era una promessa di vita e benessere.

(Nell’immagine: negli scavi dell’insediamento di Avdat nel Negev settentrionale sono stati rinvenuti i resti di una vasca per la lavorazione dell’uva e la sua trasformazione in vino. Da notare, nella parte opposta dell’immagine, l’apertura che serviva a travasare il vino verso una vasca a livello inferiore, separandolo dai sedimenti prodotti nel corso della lavorazione del mosto. Sullo sfondo sono riconoscibili i muretti di pietre che la tecnica nabatea utilizzava per convogliare le scarse precipitazioni verso un unico appezzamento, a valle, dove erano concentrate le coltivazioni)
Roberto Jona, agronomo

(13 settembre 2020)