Il nuovo Medio Oriente

L’accordo tra Israele e Bahrein per il reciproco riconoscimento, annunciato dal Presidente Trump nella data fortemente evocativa dell’11 settembre, non è meno importante di quello concluso tra Israele ed Emirati Arabi Uniti. Non è meno importante perché l’accordo con Bahrein prefigura un sistema mediorientale formato da una serie di Stati che intendono vivere in pace e collaborare con Israele, capovolgendo la realtà di un’area che dalla fine della seconda guerra mondiale è stata caratterizzata dall’instabilità e da un permanente stato di tensione se non di guerra. È possibile che questo sistema si consolidi con l’adesione dell’Arabia Saudita e dell’Oman, in tempi e con modalità che potranno essere diversi da Stato a Stato ma che comunque vanno nella stessa direzione. Ci sono poi alcuni Paesi a occidente del Canale di Suez che sembrano muoversi nello stesso senso, come il Sudan e il Marocco, ma per il momento sarà bene concentrare l’attenzione su ciò che accade intorno al Golfo persico o arabico che dir si voglia.
Non si può fare a meno di notare che questa nuova politica è promossa da monarchie assolute, dove il potere è detenuto da una famiglia allargata, mentre sono pressoché assenti le dinamiche democratiche occidentali. È perciò necessario cercare di comprendere meglio le caratteristiche di questi Paesi per non cadere vittime di quella stessa sindrome che ha portato, a suo tempo, a considerare necessario esportare con le armi la democrazia occidentale in Afghanistan e in Iraq o a salutare come annunciatrici di un’era di democrazia le cosiddette primavere arabe.
La prima cosa che salta agli occhi è che le famiglie che detengono il potere nei Paesi del Golfo fondano la loro prosperità sui proventi derivanti dall’estrazione (ma anche dalla raffinazione) del petrolio e del gas naturale. Ma mentre in passato queste ricchezze rimanevano all’interno di una ristretta cerchia familiare, da tempo il loro utilizzo si è radicalmente modificato ed esse sono state indirizzate verso investimenti, in primo luogo finanziari ma poi anche industriali, che hanno, nel giro di pochi anni, modificato il volto di questi Paesi.
C’è un indicatore che va preso in attenta considerazione, l’Indice di sviluppo umano, che tiene conto non solo del PIL pro capite ma anche di altri dati, come la diffusione dell’alfabetizzazione, l’aspettativa di vita ed altri ancora. Ebbene, l’Indice di sviluppo umano degli Emirati è di 0,863, che lo colloca al 34° posto nella graduatoria mondiale; quello del Bahrein 0, 807 (54° posto); per l’Arabia Saudita l’indice è 0, 780 (70° posto) ma per l’Oman è 0, 821 (48° posto). Né il quadro è molto diverso se prendiamo in considerazione altri Paesi dell’area che in questo momento stanno seguendo una diversa politica nei confronti di Israele ma una politica analoga per quanto riguarda la via allo sviluppo: l’indice del Qatar è 0,856 (37° posto), quello del Kuwait 0,803 (56° posto).
Questi indici acquistano un significato se li confrontiamo con quelli di altri Paesi dell’area e con quelli di alcuni Paesi europei. Se il Libano, che un tempo costituiva un’oasi di prosperità, adesso ha un indice di 0.757 (80° posto), l’Iraq ha un indice 0, 685 (120° posto), la Siria 0, 536 (155° posto). Abbiamo scelto questi due ultimi Paesi perché sono l’espressione più compiuta di un modello di sviluppo, quello del socialismo arabo, e sono stati governati (la Siria lo è ancora) da un partito cosiddetto socialista, il Baath, esempio di un sistema di potere “laico” e antioccidentale. I Paesi europei con i quali confrontare questi indici non sono naturalmente quelli più sviluppati come la Germania o la Francia ma quelli che si collocano comunque a un livello medio di sviluppo, come il Portogallo (Indice 0,847, 41° posto) e la Grecia (0. 870, 31° posto). Due Paesi che appartengono da tempo all’Unione Europea come la Romania e la Bulgaria hanno rispettivamente gli indici 0,811 (52° posto) e 0, 813 (51° posto). Questi dati mettono in evidenza come le monarchie del Golfo che hanno intrapreso la via dello sviluppo abbiano ormai raggiunto un indice paragonabile a quello di molti Paesi europei e, soprattutto, che questo sviluppo sta proseguendo e sarà ulteriormente favorito dagli accordi con Israele che ha un indice 0,903 (22° posto), superiore a quello dell’Italia: 0,880 (26° posto).
Questi dati mostrano come i Paesi del Golfo abbiano saputo utilizzare le risorse petrolifere per avviare un meccanismo di sviluppo virtuoso, contrariamente a quello che è avvenuto per altri Stati anch’essi ricchi di idrocarburi, come l’Iraq e la Libia, un meccanismo che ricade anche a vantaggio di altri Paesi esterni all’area mediorientale. E’ significativo che i Paesi del Golfo siano mèta di un’immigrazione, proveniente in gran parte da Paesi asiatici, che ha trovato collocazione nel sistema produttivo, un’immigrazione con caratteristiche assai diverse da quella che si riversa quotidianamente sulle coste dell’Europa meridionale. Negli Emirati gli immigrati costituiscono ben il 75% della popolazione, in Bahrein il 50%, in Qatar il 60%. Un fenomeno che rende questi Paesi simili ad Israele, costretto anch’esso, sia pure in diversa misura, a importare mano d’opera.
I dati sullo sviluppo economico e umano dei Paesi del Golfo ci rimanda al tema delle caratteristiche della loro classe dirigente. Una classe dirigente ristretta, proveniente dalla famiglia al potere, ma che contrariamente al passato non sperpera le ricchezze ma le impiega non solo per gli investimenti ma anche per la formazione della classe dirigente stessa. Quasi la totalità dei giovani componenti di questa classe dirigente ha studiato nelle più prestigiose Università inglesi e americane e, successivamente, in altrettanto prestigiosi istituti di alta specializzazione. Siamo perciò di fronte a una classe dirigente del tutto diversa da quella che ha caratterizzato (e in parte ancora caratterizza) i Paesi arabi cosiddetti progressisti, in larga misura di provenienza e di formazione militare. È del tutto illegittimo fare confronti con epoche e con realtà del tutto diverse; ma è inevitabile che venga in mente il modello seguito dall’Europa settecentesca, l’Europa delle monarchie illuminate, che hanno gettato i semi per la nascita nel secolo successivo dei sistemi liberali. È una suggestione che va subito cancellata perché troppo diverse sono le culture di base; ma è una suggestione di cui è difficile liberarsi.

Valentino Baldacci