Machshevet Israel
Elogio della fretta

Non è raro imbattersi in alcuni che deprecano la velocità: negli sviluppi tecnologici, nelle relazioni sociali, nello stile di vita. L’aggettivo ‘slow’, lento, abbinato ad esempio al cibo, in termini di consumazione ma a che di produzione, sembra aumentarne il valore nutrizionale o garantirne la funzione di aggregatore sociale: il chilometro zero come ideale, punto di incrocio tra la non-velocità e non-distanza, annullamento di ogni tempo e spazio, sublime distopia per una condizione umana storicamente caratterizzata da grande movimento, faticosi scambi e continue migrazioni. Rallentare i ritmi, sostengono i paladini della lentezza, allunga la vita o, almeno, potrebbe farcela apprezzare di più. Nondimeno, nessuno si lamenta che oggi si possa andare da Roma a Milano, o viceversa, in meno di tre ore: velocizzare i viaggi (in treno) significa più tempo a disposizione, più cose da fare, meno noia, ecc. I bradipi sono rari in natura, e soprattutto non vivono in società, dove la lentezza è dei perdenti. Dicasi ‘lento’ chi non capisce, perché non ci arriva o ci arriva dopo gli altri. La velocità, in termini evolutivi, è sempre un vantaggio. Infine aspettare non è quasi mai piacevole. Hillel insegnava: im lò achshav, emmatai? Se non ora, quando? Prendere l’iniziativa, farsi carico e affrontare i problemi, vincere passività e pigrazia sono senz’altro virtù che implicano essere veloci: ‘fast’, mahir e zariz.
Chi per la prima volta vede i charedim in Israele che stanno sempre correndo con libri sotto braccio o sporte della spesa in mano, persino con carrozzine doppie, spesso non comprende che si tratta di un habitus mentale oltre che di un vezzo sociale, ben radicato nella tradizione. Intendendo la vita come un ‘esteso servizio divino’ ossia una grande mitzwà (una mitzwà piena di mitzwot, di precetti da compiere per santificarla), la persona religiosa si muove in fretta affinché, secondo un’espressione midrashica, “la mitzwà (o la vita) non si inacidisca”. Inacidisce il precetto chi lo ritarda o lo rimanda, perché la dilazione potrebbe comportare dimenticanza del proprio dovere o far sorgere altri impedimenti. Letteralmente, nella Mekiltà, antico midrash halakhico sull’Esodo, leggiamo: “Se ti si offre l’opportunità di compiere un comandamento, non farlo inacidire” ossia affrettati a compierlo subito. Nel Talmud non sono rare le raccomandazioni ad agire in anticipo sui tempi di una buona azione: “I devoti sono in anticipo nell’adempiere i precetti” (Pesachim 4a). E come si affrettano ad anticiparla, si affrettano a portarla a compimento. Il mio maestro z”l, negli appuntamenti, arrivava sempre in anticipo a costo di dover aspettare; meglio aspettare noi che far aspettare gli altri, era la sua regola; sapendolo, anch’io arrivavo in anticipo, così arrivavamo entrambi ‘puntuali’ seppure prima del tempo fissato.
Moshè Chayyim Luzzatto, nel suo Mesilat yesharim o Sentiero dei giusti, chiama questa solerzia o alacrità con il termine di zerizut, sveltezza, che è il secondo gradino della scala di perfezione indicato da Pinchas ben Yair: “Tutte le opere dei giusti sono sempre eseguire con alacrità… I giusti infatti non perdono tempo né quando inziano una mitzwà né quando la portano a compimento. L’uomo che arde nel servizio del suo Creatore non andrà certo indolente nell’obbedirGli (…) Se invece si comporterà con lentezza, come fosse appesantito, anche la sua fiamma spirituale si abbasserà fino a spegnersi. E di ciò fa fede l’esperienza”. Correre e affrettarsi è dunque un habitus interiore, metafisico, che fa muovere velocemente i passi fisici dell’essere umano e, a volte, persino quelli di interi popoli. Leggiamo in Berakhot 6b: “Rabbi Chelbò a nome di rav Hunà insegna: chi esce da una sinagoga non deve camminare a grandi passi [ossia in fretta, come se non vedesse l’ora di andarsene dalla casa di preghiera]. Ma Abbayè lo capovolge: Ciò è detto per insegnare, invece, che quando si va in sinagoga occorre affrettarsi: è mitzwà l’affrettarsi”. Obiezione: ma correre di shabbat, quando di solito si va in sinagoga, non è una violazione halakhica? Dopo aver ascoltato le spiegazioni di rabbi Tanchum a nome di rabbi Yehoshua ben Levi, per cui bisogna sempre correre per una questione di halakhà, rabbi Zerà decise che, “a sua volta, avrebbe corso di shabbat [per pregare o andare ad ascoltare una lezione]”. Ciò è ripreso e ribadito dal Rambam, dal Tur e dallo Shulchan ‘arukh.
Nella pagina talmudica appena evocata rabbi Zerà si spinge a concluderne: “La ricompensa per la lezione ascoltata deriva proprio dal correre per ascoltarla”. Personalmente, quando sono lento in materia di tecnologia e chiedo aiuto a mio figlio Jonah, lui mi chiama boomer. Non me la prendo, anzi mi compiaccio che lui sia più veloce di me (credo che tutti i genitori si compiacciano di vedersi superati dai figli in abilità che li possano aiutare nella vita). Non diciamo continuamente nelle preghiere: be-mehirà be-yamenu, “presto, ai nostri giorni?”. Che si tratti del messia, di ricostruire di Yerushalaim o del tiqqun ‘olam (o di tutte e tre le cose insieme), ha più merito chi agisce secondo la massima: im lò achshav, emmatai?

Massimo Giuliani, Università di Trento