Setirot
La generazione del deserto

La Torah, in Esodo/Shemot, ci racconta i quarant’anni di traversata del deserto come graduale e difficile assunzione di responsabilità, nel senso di uscita non soltanto dall’Egitto materiale, geopolitico, ma anche e soprattutto da quello interiore, dalla/e schiavitù che ci portiamo dentro; insomma imparare a essere liberi. In questo senso, dunque, il titolo che Lia Tagliacozzo ha scelto per il suo ultimo libro è a mio avviso più che mai calzante: La generazione del deserto (Manni Editori). Narra storie di famiglia, la sua; storie di giusti e di infami durante le persecuzioni razziali. E fin qui sarebbe un ulteriore anello, assai ben scritto e documentato, di quell’infinita catena che chiamiamo Memoria. Invece questa meticolosa ricerca – inconsapevole negli anni dell’infanzia e della giovinezza e via via sempre più “militante” col trascorrere del tempo – è un’altra cosa, vive un’altra dimensione. La nostra. Quella dei figli della Shoah. Noi che abbiamo cercato, a volte riuscendoci e a volte no, di far rompere il silenzio a genitori e nonni, zii, cugini, parenti, amici di famiglia. Quel silenzio che “mai sapremo se è stato per salvarci dagli incubi o per salvare se stessi”. Forse entrambe le cose. Noi non ci siamo fermati. Il deserto ci ha spaventati, trafitti, spesso guastato il cuore e la psiche profonda (consiglio La sindrome degli antenati – Psicoterapia transgenerazionale di Anne Ancelin Schutzenberger), però abbiamo voluto provare ad attraversarlo. Con errori e coraggio, viltà e passione. “Così la coazione del silenzio si è trasformata e, senza venir cancellata, è riuscita comunque a sciogliere l’iceberg di dolore”. Ed ecco spuntare, oltre ai racconti, le lettere, i documenti, i diari, gli oggetti che avevamo da sempre a portata di mano e non avevamo mai “visto”.
La generazione del deserto ha dato voce, una bella voce, ai figli della Shoah. Perché “noi del deserto avevamo un compito arduo: non solo rendere la vita delle nostre famiglie degna di essere vissuta ma anche degna della sopravvivenza a cui loro avevano avuto accesso: un dono che sembrava impossibile da sostenere. Siamo invece riusciti a sfuggire all’ombra dello sterminio con la consapevolezza che non potevamo che dirci fortunati per il solo fatto di essere vivi. Abbiamo negato o accettato che nascessimo già con un obbligo addosso: quello di vivere; adesso però siamo prossimi all’uscita dal deserto. Ma c’è voluto tanto tempo…”.
E adesso Lia? Adesso, credo, il nostro principale, ineludibile impegno debba essere riparare il mondo, con impegno e speranza.

Stefano Jesurum