Talmud in italiano, in libreria Chaghigà
“In poche pagine una grande ricchezza”
Il nuovo anno ebraico alle porte inizia nel segno del Talmud. È in libreria infatti “Chaghigà”, letteralmente “festività” o “festeggiamento”.
Il quinto trattato tradotto finora in italiano nell’ambito del protocollo siglato nel 2011 tra Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Consiglio nazionale delle ricerche e UCEI – Collegio Rabbinico.
“Chaghigà” è stato curato dal rav Riccardo Di Segni, presidente del progetto di traduzione oltre che rabbino capo di Roma. Il volume, come i precedenti trattati “Rosh haShanà”, “Berakhòt”, “Ta‘anìt”, “Qiddushìn”, è pubblicato dall’editore Giuntina.
Il rav Di Segni, nel testo introduttivo che segue, delinea alcuni dei punti di maggior interesse di “Chaghigà”.
Chaghigà significa letteralmente “festività”, “festeggiamento”. La Torà (Es. 23:16-17 e Deut. 16:16 17) prescrive che, in tre occasioni all’anno (shalòsh regalìm: Pèsach, Shavu‘òt e Sukkòt), tutto il popolo debba recarsi in pellegrinaggio al Tempio di Gerusalemme. La Torà regolamenta con precisione i sacrifici pubblici da compiersi in queste occasioni. Aggiunge anche che il pellegrino, singolarmente, non doveva presentarsi a mani vuote, ma doveva portare delle offerte; non dice però chiaramente quali fossero queste offerte.
Il primo argomento affrontato in questo trattato è appunto la definizione dei tipi di offerte da portare, essenzialmente dei sacrifici.
Interpretando la Torà i Maestri stabilirono che i sacrifici che il singolo doveva portare nelle tre feste di pellegrinaggio erano di tre tipi:
1. L’‘olàt reiyà, “sacrificio ‘olà di presentazione”. L’‘olà, olocausto, era costituito da un animale bovino o ovino, destinato a essere bruciato interamente sull’altare. L’‘olàt reiyà era quindi il sacrificio che si accompagnava alla “presentazione”, cioè al comparire di ogni ebreo al Santuario in occasione delle tre feste di pellegrinaggio.
2. Il sacrificio detto “shalmè chaghigà” (“sacrificio shelamìm festivo”) era un sacrificio che veniva in gran parte mangiato dall’offerente a Gerusalemme; una piccola parte veniva bruciata sull’altare e un’altra (costituita dal petto e dalla coscia) andava ai kohanìm, i sacerdoti. Il precetto del sacrificio viene ricavato dal versetto: Tre volte l’anno Mi festeggerai (Es. 23:14), da Es. 12:14 e da altri.
3. Il sacrificio detto “shalmè simchà” (“sacrificio shelamìm di gioia”). Rashì (3a) dichiara che questa prescrizione si deduce dal versetto: E ti rallegrerai nella tua festa (Deut. 16:14). Per questo sacrificio non è prescritta una misura minima, perché l’importante è mangiare carne di shelamìm per gioire nella festa, e se si ha già un animale sacrificato non è necessario macellarne un altro; pertanto può essere combinato con altri sacrifici non connessi alla festa, offerti nella medesima occasione.
Nel primo capitolo del trattato si discute sulla natura di questi sacrifici, sull’estensione del loro obbligo alle varie categorie di persone e sul tempo in cui essi dovevano essere offerti. C’è un’ampia discussione sulla possibilità di utilizzare, almeno in parte, beni già consacrati per adempiere gli obblighi dei sacrifici prescritti; su come regolarsi in base alle proprie condizioni economiche e al numero dei commensali; sui tempi in cui i vari sacrifici dovevano essere presentati nel corso della festa. Alla fine si svolgono importanti considerazioni sui rapporti tra le regole consolidate e le loro fonti bibliche, che in alcuni casi possono essere molto limitate. I vari argomenti trattati, essenzialmente giuridici, offrono l’occasione a ampie e notevoli divagazioni aggadiche. La particolarità che rende famoso questo trattato è però nel secondo capitolo, in cui, prendendo spunto da argomenti delicati che è bene siano insegnati a un pubblico selezionato, si apre una parentesi fondamentale che raccoglie una serie di insegnamenti sulla mistica ebraica e rappresenta uno dei nuclei più antichi a nostra disposizione su questo argomento. Proprio in ossequio al principio che certi argomenti debbano essere trattati con discrezione, gli insegnamenti sono solo in apparenza comprensibili ed è molto più ciò che si nasconde di ciò che viene rivelato. Vi sono comunque delle storie notevoli come quelle che riguardano i destini drammatici dei Maestri entrati nel Pardès (il “giardino” della mistica), da rabbì Aqivà uscito indenne, a Elishà ben Avuyà, detto Achèr, “l’Altro”. Dopo la parentesi mistica, riprende la trattazione rituale, con l’esposizione della più antica divergenza fra Maestri documentata, su un argomento che ha direttamente a che fare con Chaghigà: la semikhà, ossia l’imposizione delle mani sull’animale prima che questo venga sacrificato. Si passa quindi all’introduzione di un problema che occuperà tutto il terzo capitolo. La presentazione al Tempio e il consumo della carne sacrificale richiedeva l’attenta osservanza delle regole di purità. Nell’ambito delle famiglie rabbiniche e di un pubblico ristretto a esse collegate si era consolidata una tradizione di rigorosa osservanza delle regole di purità, da applicare anche nell’alimentazione profana. Coloro che seguivano queste regole (tra di loro si chiamavano chaverìm, “colleghi”) dovevano necessariamente staccarsi dal popolo che, benché non disattento, non era puntigliosamente scrupoloso rispetto a tutti i dettagli e non dava totali garanzie di affidabilità. Durante i pellegrinaggi, quando tutto il popolo si riuniva insieme e circolavano merci e recipienti, questi problemi diventavano comuni e urgenti. Di tutto questo si occupa l’ultimo capitolo, con un esame attento di alcune regole speciali di purità e con una casistica su oggetti e beni.
In sostanza il trattato Chaghigà, malgrado le sue ridotte dimensioni, è molto vario per gli argomenti trattati e per diversi livelli di difficoltà. Piuttosto difficile sia per la materia trattata che per la finezza delle discussioni nell’ultimo capitolo, eminentemente giuridico; seducente per le divagazioni aggadiche del primo capitolo e per la materia mistica del secondo; comunque importante e solo apparentemente semplice nelle parti giuridiche del primo e secondo capitolo. Una ricchezza variegata distribuita in poche pagine.
Rav Riccardo Shemuel Di Segni
(17 settembre 2020)