Una pace sotto silenzio

I mass media italiani hanno inquadrato gli accordi di pace fra Israele, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti a stregua di una vicenda pittoresca, animata da protagonisti che oscillerebbero fra mitomania, ottusità, efferatezza ed insensibilità, privilegiando la denigrazione del soggetto (per loro politicamente impresentabile) a scapito dell’oggetto (la pace). Purtroppo, Alfred Nobel non previde l’assegnazione del Premio Nobel per la Guerra, il quale raccoglierebbe anche oggi dei consensi unanimi. Ne consegue che una bella conflagrazione, meglio se con molte vittime, attirerebbe l’attenzione molto più di una banalità come la cessazione di un conflitto.
Non vorrei che gli italiani finissero per ritenere che la pace sia una pagliacciata, anche se come in questo caso non solo ha luogo senza vincitori né vinti ma suscita fondate speranze che possa condurre ad un assetto consolidato e pacifico del contenzioso (diciamo) israelo – palestinese. In tal senso, sarebbe bene che l’informazione cercasse di disinnescare il clima d’odio che vede concordi tanti connazionali quale nuova base di una convivenza disinibita.
Non è vero, poi, che si tratti di una pace priva di concessioni territoriali, visto che Israele ha congelato le proposte di estensione della propria sovranità su parte della zona ”C”, e considerando che gli Accordi in oggetto menzionano la necessità di porre fine al contenzioso (diciamo) israelo – palestinese.
Negli USA, il New York Times del 15 settembre 2020, ha riferito che “the Palestinians expressed their anger over the agreements by launching rockets into Israel from Gaza during the White House ceremony”. Bombardare Israele perché si è adirati è un‘idea fenomenale; siccome l’ho con diverse persone, se dovessi esprimermi a colpi di mortaio, potrei sempre giustificarmi spiegando che ero piuttosto nervosetto. Eppoi, il NYT scrive “i palestinesi”, al posto di Hamas, non considerando che nulla è così razzista come un’ingiustificata generalizzazione.
Dal canto suo, Jeremy Ben Ami, Presidente di J Street, sempre secondo il NYT, commenta: “it’s not conflict resolution and it’s not peace — this is a business deal. It’s very, very clear that there are aligned interests between Israel and these countries — military, security, diplomatic, economic — and those interests have been there for two decades.”. Insomma, perché far diventare de iure una situazione de facto? Sicuramente Ben Ami si sarà pentito di essersi sposato, quando bastava ed avanzava una relazione furtiva.
Sempre il NYT, ricorda che per queste intese “two right-wing Scandinavian lawmakers” hanno proposto Trump per “nothing less than the Nobel Prize”; sicuramente, trattandosi di due parlamentari di destra, non possono che essere dei farabutti.
Più interessanti, invece, le dichiarazioni della Speaker della Camera, Nancy Pelosi la quale ha asserito che il Congresso vigilerà perché la sicurezza d’Israele non sia intaccata dagli Accordi. Purtroppo, la Pelosi ha ottant’anni, ed appartiene ad un’epoca in cui negli USA i concetti, segnatamente quegli irenisti, erano tutto fuorché incerti ed anfibologici.

Emanuele Calò, giurista