Yamim noraim
Eccoci giunti a quella fase esclusiva che la vita ebraica contempla come dovere insieme religioso e morale tra Rosh haShanah e Kippur: gli Yamim noraim, i dieci giorni “terribili” di pentimento. Solo l’ebraismo richiede questa apertura totale sulla dimensione profonda dell’individuo, questa immersione nella propria coscienza davanti a se stessi, al prossimo, all’Onnipotente. Un periodo di revisione, di analisi interiore, di autocritica, di impegno al miglioramento, una resa dei conti totale e a tutto campo. L’attualità perenne, unica di questo nostro imperativo ebraico verso l’esame del proprio essere e verso l’intima purificazione di se stessi (ben più vincolante e personalizzato dell’universale “imperativo categorico” di Kant, nobile ma generico) mi ha da sempre totalmente conquistato. È norma religiosa, etica e psicologica contemporaneamente; dovere imprescindibile di molteplice valenza e tuttavia intrinsecamente unitario; obbligo di una antichità e nello stesso momento di una modernità fuori dal tempo. Risponde a un bisogno religioso e anche umano di rivisitazione del passato, di comprensione di sé e del proprio agire, di rigenerazione interiore. L’uomo ebreo si pone davanti alla propria complessità di ente assieme materiale e spirituale, davanti al Creato, davanti a Dio e si interroga, torna intimamente indietro e si rammarica del proprio atteggiamento (teshuvah). Interloquisce con il proprio io, con i suoi vicini e con la società, con la dimensione divina (trascendente e insieme immanente). In questo modo comprende sé e il mondo, ricalibra con sofferenza la propria posizione nei confronti dell’Essere, preparandosi a un comportamento più degno nei confronti della realtà circostante.
Anche all’inizio del 5781, uguali e diversi come sempre, i dieci giorni di introspezione ci impegnano radicalmente. Ma l’anno appena trascorso è stato diverso, più duro di tanti altri. La pandemia ha colpito e continua a diffondersi; ha cambiato e continua a cambiare le nostre esistenze. Anche la pausa e la teshuvah degli Yamim noraim ampliano la sfera della riflessione abituale.
Emerge con forza drammatica la fragilità della condizione umana. La concentrazione su noi stessi e sulla situazione contemporanea verso la quale ci avviano i giorni penitenziali di quest’anno ci porta a cogliere la caducità, anzi la pericolosità insita nella globalizzazione, che da anni costituisce l’indirizzo dello sviluppo mondiale: eliminare barriere, globalizzare è bello ma intrinsecamente insidioso, il pericolo-virus può – non visto – insinuarsi ovunque e moltiplicarsi senza limiti su scala planetaria. E, con quello, altri mille rischi e fattori imponderabili. Forse dobbiamo imparare il senso del limite, evitare di coltivare l’immagine di onnipotenza che il formidabile sviluppo scientifico spesso induce in noi. Gli antichi greci conoscevano questa tracotanza sopra le righe e i suoi rischi distruttivi; la chiamavano “hybris”. L’auto-esame di questi giorni può insegnarci che la natura va esplorata, conosciuta, assecondata per fini di utilità comune; ma non può essere dominata: accade più facilmente che sia la natura stessa – in questi mesi sotto forma di malattia – a sottometterci e spesso a distruggerci.
Altro elemento di fondo con cui dobbiamo misurarci se proiettiamo l’esame del nostro atteggiamento passato sul presente/futuro imprevedibile del Covid-19 è la constatazione della provvisorietà dell’insieme, della scomparsa di ogni certezza. Il contingente diviene la dimensione dominante delle nostre esistenze: il pericolo altissimo e non facilmente eliminabile di essere colpiti dal contagio per puro caso e in qualsiasi momento, l’impossibilità di prevedere quando usciremo dall’interminabile tunnel che stiamo percorrendo, l’eventualità sempre presente che altri virus si formino diffondendosi poi senza limiti in un mondo sempre più aperto, e altre infinite situazioni di incertezza. Tanto più allora sentiamo – di fronte a un’insicurezza continua e sempre più marcata – l’esigenza del necessario, il bisogno interiore di un appiglio stabile, perenne, universale. La teshuvah rappresenta la costruttiva risposta ebraica – contemporaneamente soggettiva e oggettiva – all’attuale prevalere dell’incertezza globale. Una risposta non meramente consolatoria bensì filosofica oltre che religiosa, razionale oltre che sentimentale.
Un terzo indirizzo può derivarci dalla riflessione interiore di questi giorni in un anno così particolare. E’ l’invito alla saggezza rispetto alla diffusione del contagio e alla ponderatezza rispetto ai nostri comportamenti. La pandemia ha colpito pesantemente e avrebbe colpito in ogni caso. E’ indubbio però che tanti atteggiamenti inconsapevoli e irresponsabili hanno molto favorito la sua espansione. Porre maggiore attenzione alla salvaguardia della salute e della vita di tutti e di ciascuno è in sostanza un invito che ci giunge dal cuore stesso dell’ebraismo, che mette la vita al centro dei propri valori e fa del pikuah nefesh (la salvezza della vita) un principio essenziale dei propri criteri di comportamento.
Speriamo che da dieci giorni terribili di riflessione, nel cuore di una terribile epidemia, possa uscire un anno comunque “buono e dolce”.
David Sorani