I Florio e la scelta del coraggio

A Palermo la storia dei Florio, una dinastia di imprenditori e armatori, potenti e illuminati, che si sono alternati nell’arco di quattro generazioni per tutto il diciannovesimo secolo fino alla Prima Guerra Mondiale, è ancora sentita come parte integrante della storia della città. Un mito trasversale che permea di nostalgia sia la cultura delle élite intellettuali locali, che la memoria orale degli strati popolari.
Agli albori del Novecento, il nome dei Florio destava ancora rispetto e gratitudine. Si diceva “Binidittu tuttu dunni passa Florio!” (“Benedetto tutto dove passa Florio”), in relazione alle migliaia di posti di lavoro retribuiti dignitosamente, grazie ad un fitto reticolo di imprese che andavano dalla Fonderia ai Cantieri Navali, dall’industria enologica Marsala alle tonnare, dalle solfatare al chimico, dal tessile alle ceramiche. Furono anche colti mecenati, filantropi generosi e attenti benefattori: edificazione di splendidi teatri e grandi hotel di lusso, donazioni di ospedali, mense per i poveri, scuole per i lavoratori e asili nido per i bimbi delle loro operaie, gare automobilistiche e competizioni sportive internazionali.
Con gli ultimi di loro, Ignazio Junior e la sua splendida moglie Franca, Palermo vive un’intensa e felice stagione economica e culturale, accreditandosi come capitale dell’operosità, del buon gusto e del Liberty, oltre che come stazione climatica d’eccellenza.
Poi sarà il crepuscolo. In pochi anni si scioglie come neve al sole il più grande impero economico dell’Italia meridionale: una disastrosa rovina finanziaria, che lasciò i Florio privi di mezzi e spogliati di tutti i loro beni.
Il 15 settembre scorso è mancata una dei loro discendenti: Costanza Afan de Rivera, figlia di Giulia Florio e nipote di Franca Florio, pochi mesi dopo la pubblicazione del suo libro dedicato a sua madre, “L’ultima leonessa”, in cui rievocava la storia della sua famiglia.
La narrazione parte dalla mitica Franca Florio, la sua Grand Mère, una donna di notevole fascino, eleganza e cultura, che dominò assieme al marito Ignazio Junior Florio la scena internazionale dell’alta società europea al tempo della Belle Époque, e termina con la figura di sua madre, Giulia Florio, di cui riporta un episodio importante e drammatico che la vide protagonista durante l’occupazione di Roma da parte dei tedeschi: il soccorso prestato a decine di ebrei che abitavano in ghetto, al momento del loro rastrellamento e deportazione ad opera delle SS di Kappler.
Già Franca Florio nel suo diario, il 10 settembre 1938, aveva scritto: “Sono esterrefatta, per non dire sconcertata. Indignata e, non poco, preoccupata. Il duce ha fatto promulgare al re un decreto contro gli ebrei che operano nelle scuole. Le teorie dei saggi che si sono espressi sul documento in difesa della razza non solo hanno fatto proseliti, ma sono andati a segno! Ora passi che Hitler ne faccia un vergognoso ideale, ma che Mussolini gli vada dietro… Come si mette con la sua vecchia amica Margherita Sarfatti? Dove è finita la coscienza? Bruciata sull’altare del più bieco opportunismo politico? Dio ci salvi dalla cecità che sembra avvolgere ogni cosa.”
Il 19 ottobre 1943, sempre Franca Florio aveva annotato: “Che cosa terribile! All’alba di due o tre giorni fa la Gestapo ha invaso il ghetto ebraico e ha rastrellato, si dice, 1500 persone. Sono tutti romani, tutti italiani che stanno deportando! Sono sicura che il Vaticano protesterà, che Papa Pio XII riuscirà a bloccare l’operazione.”
Franca non sa il ruolo salvifico giocato da sua figlia Giulia e da suo genero Achille Afan de Rivera in quel frangente. Lo apprenderà solo nel dicembre del 1945 per bocca dello stesso Achille. A narrare l’episodio è Costanza, che riporta il racconto di sua madre Giulia, una vera combattente indomita: “Mia madre avrebbe voluto salvarli tutti. Molti ebrei chiesero solo il permesso di attraversare, approfittando della porticina di servizio del loro palazzo (la dimora degli Afan de Rivera era Palazzo Costaguti, situato nel cuore della Roma ebraica, ndr) che si apriva sul vicolo dentro il ghetto. I miei tolsero la chiusura, si sparse la voce. Passarono da lì moltissime famiglie composte da anziani, giovani, donne, bambini. Bussarono appena, si insinuarono a frotte, impauriti, disperati… Uscirono alla spicciolata, dall’altro portone, quello principale su Piazza Mattei. Andarono incontro a un destino ignoto dal quale non tutti fecero ritorno.
Aprire le porte del palazzo non fu difficile. Fu più complesso, invece, riuscire … ad accogliere tutti quelli che non avevano una meta, un posto dove andare. Occorreva organizzarsi bene perché gli ospiti diventassero invisibili per un tempo indeterminato.
Nel momento dell’emergenza i miei genitori decisero di non voltarsi dall’altra parte, si rimboccarono le maniche e approntarono ricoveri di emergenza nelle intercapedini fra un piano all’altro sfruttando le zone laterali degli alti soffitti, fra le volte e le solette orizzontali, locali accessibili da porticine mimetizzate con grossi vasi di piante e mobili…Mia madre razionò il cibo perché bastasse per tutti, tirò giù le tende per procurarsi stoffa sufficiente, confezionò e distribuì lenzuola e coperte di emergenza. Tutti furono suoi figli: sedici nuclei uniti in una sola famiglia di oltre 40 persone, in attesa di un orrendo presagio che non tardò a farsi concreto.”
Era l’alba, era ancora buio e pioveva quando il quartiere ebraico fu circondato da pattuglie tedesche, che piombarono come avvoltoi, salirono per le scale, sfondarono porte e vetri, trascinando fuori famiglie infreddolite e spaventate. Risuonarono grida, pianti, urla e passi marziali. I Tedeschi li spintonarono e li caricarono sui camion allineati per la via. Quando dagli elenchi in loro possesso si accorsero che alcune famiglie mancavano all’appello, setacciarono furiosamente i vicoli.
“Un ufficiale nazista bussò imperiosamente al portone di Piazza Mattei. Arrivò un intero manipolo di SS, continuarono a bussare sempre più. Achille, mio padre, si vestì di tutto punto. Indossò gli stivali e l’alta uniforme della milizia fascista. Aprì solo dopo parecchi minuti e con fare autorevole si mostrò infastidito, quasi offeso. Spavaldamente intimò loro di andar via e di non disturbare il sonno della famiglia di un gerarca. Vi fu un tentennamento, poi il silenzio. Uno scontro di sguardi affilati come lame. Poi senza fiatare l’ufficiale girò sui tacchi e sparì nel buio seguito dai suoi uomini. Se i tedeschi avessero deciso di tornare indietro per ispezionare il palazzo – conclude Costanza Afan de Rivera – sarebbero tutti morti: la mia famiglia e tutti i loro protetti.”
Oggi i nomi di Giulia Florio e di Achille Afan de Rivera sono incisi nel Giardino dei Giusti a Gerusalemme e nel Giardino dei Giusti a Palermo, a ricordo del loro gesto coraggioso, di una scelta che ha implicato l’agire in prima persona e lo schierarsi a difesa dei più fragili, anche a costo della propria vita.

(Nelle immagini Palazzo Costaguti a Roma, dove molti ebrei trovarono aiuto; Franca Florio con la figlia Giulia; il libro “L’ultima leonessa” di Costanza Afan de Rivera, recentemente scomparsa)

Adriana Castellucci

(24 settembre 2020)