L’accordo di Abramo e i palestinesi
Con qualche eccezione non si può dire che la stampa italiana, in particolare la grande stampa d’informazione, abbia salutato con entusiasmo l’accordo tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Eppure si è trattato di un accordo che ha finalmente introdotto un elemento di pacificazione in una regione che è stata per decenni caratterizzata da tensioni e da conflitti. La riserva, più o meno enfatizzata, che si è potuta leggere sulla stampa italiana riguarda la non partecipazione dei palestinesi a questo accordo, anzi l’esplicita ostilità della loro leadership. Questo atteggiamento evidenzia la persistenza nella nostra stampa di un pregiudizio ideologico che considera i palestinesi portatori di istanze positive e, per contro, in Israele uno Stato nei confronti del quale mantenere una tenace riserva mentale.
Alla maggior parte dei giornalisti italiani farebbe molto bene seguire un corso di aggiornamento di storia del Medio Oriente, tenuto naturalmente con la necessaria obiettività, oppure fare lo sforzo di documentarsi sulla base di un’abbondante bibliografia, su quale è stato, nel corso dei decenni, l’atteggiamento della leadership palestinese verso qualsiasi tentativo di pace che partisse dall’ipotesi che si trattava di una terra contesa e che solo un compromesso avrebbe consentito la convivenza di due popoli sulla stessa terra.
Di solito si considera come punto di partenza del rifiuto palestinese al compromesso il no opposto alla Risoluzione dell’Assemblea della Nazioni Unite n. 181 del 27 novembre 1947, la madre di tutti i successivi rifiuti. Ma si può anche risalire più lontano nel tempo, al 1937, quando la Commissione Peel propose un’ipotesi di spartizione del mandato britannico sulla Palestina che prevedeva la nascita di uno Stato ebraico su una piccola striscia di costa intorno a Tel Aviv più una parte della Galilea, mentre tutto il resto sarebbe toccato agli arabi. L’accettazione di Ben Gurion e il rifiuto palestinese a quella soluzione furono il modello dell’atteggiamento delle due parti che si è prolungato nei decenni fino ai nostri giorni.
Non si tratta di ripercorre tutta una storia che, d’altra parte, è ben conosciuta – almeno da parte di chi vuol conoscerla – ma almeno soffermarsi a ricordare quello che accadde nell’estate del 2000 a Camp David, quando l’accordo di pace proposto da Bill Clinton era ormai cosa fatta e alla fine fallì per la provocatoria richiesta di Arafat di consentire il ritorno di 4.500.000 presunti profughi, cioè di persone che erano discendenti di coloro che avevano abbandonato la Palestina dopo la guerra del 1948/49, una richiesta che avrebbe completamente sconvolto il quadro demografico e politico dello Stato d’Israele.
La persistente indisponibilità palestinese a un accordo di pace sta alla base – insieme a molti altri fattori – del radicale mutamento di posizioni da parte della maggioranza dei Paesi arabi. La corda è stata tirata per ben settanta anni e alla fine si è spezzata. Altri Paesi arabi seguiranno l’esempio degli Emirati e del Bahrein e alla fine ne emergerà il quadro di un Medio Oriente dove non saranno scomparsi tutti i motivi di tensione ma dove il fuoco di questi ultimi si sposterà dal conflitto israelo-palestinese all’esigenza di contenere le spinte egemoniche dei due Paesi che maggiormente minacciamo la stabilità della regione, l‘Iran e la Turchia. La cosiddetta questione palestinese è destinata, se non a scomparire, perlomeno a occupare una posizione sempre più marginale nell’agenda del Medio Oriente. Con buona pace della stampa italiana.
Valentino Baldacci