L’ebraismo per Judt

“Per Tony essere ebreo era un dato di fatto, il suo corredo più antico. Era la sola identità che possedeva inequivocabilmente. Non era religioso, non andava mai alla sinagoga, né praticava in casa; gli piaceva citare Isaac Deutscher (i cui libri gli erano stati regalati dal padre quando era ragazzo) a proposito degli ‘ebrei non ebrei’. Se accennava al fatto di essere ebreo, si riferiva al passato: le cene del venerdì sera, quando era bambino, dai nonni che parlavano yiddish nell’East End di Londra, l’umanesimo laico (molto ebraico) del padre (‘non credo nella razza, credo nell’umanità’) e la risoluta defezione della madre: si alzava in piedi quando la regina d’Inghilterra appariva in televisione e non voleva che i suoi nipoti fossero circoncisi nel timore che tornassero ‘i brutti tempi’; o il nonno Enoch, il proverbiale ebreo errante, che aveva sempre la valigia pronta e passò la maggior parte della vita in viaggio.”
Così scrive nell’introduzione di “Quando i fatti (ci) cambiano” Jennifer Homans, a proposito del marito, lo storico Tony Judt (1948-2010) autore dei saggi presenti in questo volume. Un libro – già recensito da Alberto Cavaglion su queste pagine – che certo vale la pena leggere, per riflettere sul tempo presente, e su quello che ci siamo lasciati alle spalle, “su che ciò che abbiamo imparato da questo”. Della parte che ho citato, colpisce invece il modo in cui Judt percepisca il proprio “ebraismo” come un retaggio prettamente individuale che appartiene al passato, e non è affatto proiettato nel futuro. Non pochi ebrei, pur sentendosi tali, non hanno tramandato il proprio ebraismo ai propri discendenti. Forse perché è più complesso tramandare una memoria personale o un’identità esclusivamente “culturale” se scevra dalla pratica religiosa. Il fenomeno dell’assimilazione è nato anche da questo, e non ha comportato necessariamente un taglio con le proprie radici. Più avanti Homans racconta che i figli di Judt non si sentivano affatto ebrei, e spiega, “e la conversazione si focalizzò subito sulla Shoah”. Quello di Judt è senz’altro uno dei tanti modi di essere ebrei, come viene detto in varie comunità italiane, “la legge di Mosé, chi la tira da capo e chi da pié”. Forse un giorno i discendenti di Judt riscopriranno questo retaggio, la storia del popolo ebraico, come la Torah, è sempre reperibile e onnipresente in ogni tempo, senza un inizio né una fine.

Francesco Moises Bassano

(25 settembre 2020)