Primo Levi e il Kippur

“…La sera della vigilia ci disponemmo in fila per ricevere la zuppa, come ogni sera; davanti a me c’era Ezra, orologiaio di mestiere, cantore il sabato in un remoto linguaggio lituano. […] Quando fu di fronte ad Otto non porse la gamella ed invece gli disse: – Signor capo-baracca, oggi per noi è un giorno di espiazione, ed io non posso mangiare la zuppa. Le domando rispettosamente di conservarmela fino a domani sera.
Otto era alto quanto Ezra, ma due volte più spesso di lui. Aveva già attinto dal mastello la razione di zuppa e si arrestò di colpo, col mestolo sollevato a mezz’aria: si vide la sua mandibola scendere piano piano, senza scosse, e la bocca rimanere aperta. In tutti i suoi anni di lager non gli era mai successo di incontrare un prigioniero che rifiutasse il cibo. Per qualche istante rimase incerto se ridere o menare uno schiaffo a quello spilungone sconosciuto: che non lo stesse prendendo in giro? Ma non sembrava il tipo. Gli disse di mettersi da parte, e di venire da lui a distribuzione ultimata.
Ezra attese con impazienza, poi bussò alla porta. Otto lo fece entrare e fece uscire dalla camera i suoi cortigiani e i suoi parassiti: per quel colloquio voleva essere solo. Sciolto così dal suo ruolo, si rivolse ad Ezra con voce un po’ meno ruvida e gli chiese cosa fosse questa storia dell’espiazione. Forse che quel giorno lui aveva meno fame degli altri giorni?
Ezra rispose che certamente non aveva meno fame; che nel giorno di Kippur avrebbe dovuto anche astenersi dal lavoro ma sapeva che se lo avesse fatto sarebbe stato denunciato e ucciso, e perciò avrebbe lavorato, perché la Legge consente di disobbedire a quasi tutti i precetti e divieti per salvare una vita, la propria o d’altri; che tuttavia lui intendeva osservare il digiuno prescritto, da quella sera fino alla sera seguente, perché non era certo che ne sarebbe seguita la sua morte. Otto gli chiese quali erano i peccati che lui doveva espiare, ed Ezra gli rispose che ne conosceva alcuni, ma che forse ne aveva commessi altri senza averne coscienza; e che, inoltre, secondo l’opinione di alcuni sapienti, che lui condivideva, la penitenza e il digiuno non erano una questione strettamente personale […]
Otto obiettò ancora che la zuppa era assai liquida, era insomma più acqua che altro e quindi piuttosto che di un mangiare si trattava di un bere […] Ezra gli spiegò che la distinzione non aveva rilevanza, nei giorni di digiuno non si mangia e non si beve nulla, nemmeno l’acqua. […]
Otto brontolò una frase incomprensibile, in cui tuttavia ricorreva la parola meschugge, che significa «matto» in yiddish, ma che tutti i tedeschi conoscono; però si fece dare da Ezra la gamella, la riempì e la ripose nell’armadietto personale a cui lui, come funzionario, aveva diritto, e disse a Ezra che avrebbe potuto passare a ritirarla la sera dopo. Ad Ezra parve che la razione di zuppa fosse particolarmente abbondante.”
(Primo Levi, da “Il cantore e il veterano”, Lilit e altri racconti)

A poco più di due giorni dall’inizio di Kippur – e per di più di un Kippur anomalo come questo – mi sono presa la libertà di riproporre questo racconto con qualche taglio e senza la conclusione, limitandomi quindi alla versione di Ezra (poiché naturalmente – precisa Levi subito dopo – è stato lui a raccontargli quel colloquio). Al di là delle motivazioni halakhiche (credo che ce ne sarebbero state altrettante, se non di più, per non digiunare) il suo Kippur è senza dubbio una forma di resistenza contro chi voleva distruggere gli ebrei e la tradizione ebraica. Per questo mi sono permessa, per una volta, di lasciargli l’ultima parola.

Anna Segre, insegnante

(25 settembre 2020)